Pieve di Scandiano Pieve di Scandiano

Unità pastorale delle Parrocchie della Natività della B.V.M, Santa Teresa, Chiozza, Fellegara, Iano, Pratissolo e San Ruffino
Show Navigation Hide Navigation
  • HOME
  • LA PIEVE
    • Parrocchie
      • Natività B. V. Maria
      • S. Teresa
      • CHIOZZA – S. Giacomo
      • JANO – S.Maria Annunziata
      • FELLEGARA – S. Savino
      • PRATISSOLO – Ss .Gervasio e Protasio
      • S. Ruffino
    • Gruppi di Riflessione
    • Bilanci Economici
  • GdP
    • Progetto Pastorale Giovanile
    • Oratorio
    • 3° Media
    • 1°-2° Superiore
    • 3° Superiore
    • 4° – 5° Superiore
    • Gruppo Universitari
    • Messa Giovani
  • FAMIGLIE
    • Pastorale Famigliare
      • Il Percorso
    • Gruppi della Visitazione
      • La Proposta
    • Lettere dal Brasile
    • Magistero
      • Parole del Papa
  • GRUPPI
    • Amici Unitalsi
    • EsseTi Major
    • Focolare
    • Compagnia Teresianum
      • Appuntamenti
  • CATECHESI
  • CFdC
    • Formazione
  • S. MESSE
  • CONTATTI
  • In preghiera per Papa FRANCESCO

  • Grest 2025

  • Lettere dall’Amazzonia – APRILE 2025

  • Pellegrinaggio a ROMA

  • Task Force

Ultime Notizie
In preghiera per Papa FRANCESCO
In preghiera per Papa FRANCESCO Leggi di più...
Grest 2025
Grest 2025 Leggi di più...
BUONA PASQUA !!
BUONA PASQUA !!Dal vangelo secondo Giovanni (Gv 20, 1-9)  Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti. La pietra rappresenta le difficolta della vita, quando davanti ad una situazione difficile non vedo la luce alla fine del tunnel, quando ho paura di guardare avanti, quando vedo ostacoli davanti al mio cammino. La pietra rimossa, Il primo giorno della settimana, la tomba vuota, sono il simbolo di un nuovo inizio, un segno di rinascita e di ripartenza, un “quaderno aperto” in una pagina nuova, bianca, pulita e tutta da scrivere con la certezza che il signore è risorto, che con la sua morte ha vinto i nostri peccati “Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo.” (1Cor 15, 21-22) Questa parola ci spinge ad avere coraggio e speranza. Nonostante la tristezza, Maria di Magdala, Giovanni e Simon Pietro trovano il coraggio di recarsi al sepolcro. E qui, sono i primi testimoni di quella luce in grado di vincere le tenebre: Gesù che e risorto. Ognuno può dire: io ho un posto, io sono una missione! Pensate questo: qual è il mio posto? Qual è la missione che il Signore mi dà? Che questo pensiero ci aiuti a prendere un atteggiamento coraggioso nella vita. Grazie. A ciascuno giungano gli auguri di Buona Pasqua! [...] Leggi di più...
Lettere dall’Amazzonia – APRILE 2025
Lettere dall’Amazzonia – APRILE 2025APRILE 2025 Un saluto dal grande fiume, ora é davvero grande, proprio in piena e l’acqua penetra in tutti i luoghi. La foresta é allagata e i pesci sono spariti dal letto del fiume, la pesca é difficile e anche in città il pesce scarseggia. Ma dove sono andati? Anche loro in foresta, fra le radici degli alberi per nutrirsi della frutta che cade abbondante. Beati loro, sfuggono ai pescatori e mangiano bene. Così potrebbe essere anche l’Umanità, lontano dai predatori che per interessi meschini uccidono e fanno guerre commerciali per favorire quella maledetta fabbricazione di armi, che dopo la droga é il più grande giro di soldi. In verità qui non ci facciamo mancare niente, la droga corre libera, la violenza cresce ogni giorno e le autorità costituite lo sono solo per i propri interessi. Poveri pesci! Costretti a nascondersi per sopravvivere. É difficile parlare della Pasqua, eppure siamo circondati da molti segni: l’acqua abbondante, la gratuità dei frutti della foresta che chiedono solo di essere raccolti, i molti animali che abitano la terra e che sono sempre una risorsa in tempi difficili. In Amazzonia non si muore di fame, si muore per droga, alcool, violenza, ingiustizia e oppressione; tutte cose che dipendono dagli uomini, e anche questo fa riflettere. In questa Quaresima abbiamo riflettuto sulla bontà della Creazione e sul fatto che tutto, mondo vegetale, animale e umano, tutto sia molto intrecciato e interdipendente. A noi, all’Umanità é affidato il compito di prendersi cura del Creato. A noi é lanciata la sfida di vivere in armonia. Anche gli astri ci rassicurano, ogni giorno il sole si pone e nel giorno seguente sorge per dare vita. Anche la luna compie il suo corso, diminuisce fino a scomparire, per poi compiere il cammino inverso fino a tornare ad essere piena. Così è la Pasqua, luna piena che rischiara la notte e permette al navigante di trovare e non perdere la strada di casa. “Padre, mi disse il cassique di São Vicente, qui é molto buono per vivere, qui Dio non ci lascia mancare il cibo, l’acqua e la tranquillità”; poi ha aggiunto: “purtroppo sono apparsi pirati che rubano e squartano le persone per impadronirsi delle loro cose, sempre in cerca della droga che da denaro, allora dobbiamo unirci e fermare questa onda di violenza, per i nostri figli, perché torni la tranquillità”. Anche questo é Pasqua, non rassegnarsi al male della violenza e delle armi, ma lottare per la tranquillità delle nuove generazioni, prenderci cura del futuro della vita. La Pasqua, il passaggio dalla morte alla vita, ci dice che c’é sempre una speranza, c’é sempre qualcosa di nuovo che farà risorgere la vita. L’invecchiamento dei paesi europei sarà salvato dai giovani immigrati, non si può fermare l’acqua che cresce, lei entra ovunque. Il disgregarsi di tante famiglie troverà ancora, nell’amore e nella cura dei figli, un suo senso, che si aprirà a nuove unioni e nuove esperienze fino ad incontrare la stabilità così difficile e sempre ricercata. Anche la religiosità dovrà abbracciare l’umanità, in nome di Colui che ha scelto di farsi uomo. Senza rigidità e senza giudizi, ma nella ricerca del bene possibile. Pensiamo all’incoerenza del fatto che un prete può sposarsi, se lascia il sacerdozio, ma un divorziato no, deve aspettare la morte della prima compagna. Due pesi e due misure che non aiutano a ritrovare la speranza dopo un fallimento, molte volte non cercato. Anche i giovani non aspetteranno più i trent’anni per sposarsi, rimanendo ognuno a casa sua, ma apprezzeranno il dono e la forza della giovinezza al servizio di una paternità e maternità naturale e non sofisticata. I popoli originari dell’Amazzonia ci insegnano la virilità della giovinezza, e la vita che nasce é sempre un dono e una possibilità nuova, spesso aiutata dal clan famigliare e mai abbandonata. Anche questo é Pasqua. Non permettiamo che la notte e la rassegnazione ci scoraggino, la luna continuerà a crescere fino ad essere piena, allora in quel Venerdì Santo potremo specchiarci nell’acqua cristallina dei ruscelli, e vedendo il nostro volto avremo la certezza del nuovo giorno, sarà ancora Pasqua e la vita trionferà su ogni tipo di oppressione. Coraggio, non lasciamoci rubare la Speranza. Buona Pasqua a tutti, e che sia di Risurrezione! Gabriel Carlotti – missionario in Amazzonia Santo Antônio do Içá, aprile 2025 …Vi auguro una Settimana Santa ricca di provocazioni, che aiuti ad entrare nel mistero della Passione e Risurrezione avvenute una sola volta in Gesù, ma sempre presenti nella storia dell’uomo, anche oggi. Il Signore ci aiuti a contemplarlo crocifisso nei popoli massacrati della Palestina, dell’Ucraina, del Congo e di altre nazioni colpite dalla guerra, nel popolo dimenticato di Myanmar ed in tutti i popoli colpiti da disastri naturali e da povertà, nelle famiglie colpite da improvvisi licenziamenti dovuti a politiche economiche voraci, in tutti i sofferenti: solo così la Luce della Risurrezione potrà avere per noi un significato vero e potente. Paolo Bizzocchi – missionario in Amazzonia Santo Antônio do Içá, aprile 2025 DICEMBRE 2024 C’è più gioia nel dare che nel ricevere È ancora Natale, forse troppo infastiditi da troppe guerre in corso, da tanta gente chiedendo ospitalità, da molti disperati, rimasti senza niente e senza Patria, da teste vuote che governano e da una dilagante insoddisfazione che anche i regali natalizi non possono cambiare. Allora forse vale la pena ascoltare l’ultimo profeta, austero e minaccioso, che deve ammettere: “non sono io il Messia che deve venire, ma è già in mezzo a voi”. Farà fatica a riconoscerlo perché “Colui che deve venire” non giudica e non condanna, come era previsto dal copione antico, ma accoglie e perdona, ama e dona sé stesso, senza chiedere niente in cambio. Davvero strano questo Messia, che disattende le nostre attese! Eppure Giovanni rimane profeta, indica il cammino della gioia: “chi ha due vestiti ne dia uno a chi non ne ha, e chi ha da mangiare lo condivida con chi ha fame”; “Non chiedete più di quel che è dovuto ed è giusto”; “Non usate violenza e accontentatevi delle vostre paghe”. Così il Battista indica il cammino della gioia. Non chiede di fare penitenza o lunghe preghiere, neanche di osservare i comandamenti e i precetti; non forza un atteggiamento religioso o pietoso; ma offre un cammino di umanità. Se vuoi essere felice, rendi felice le persone che incontri nella tua vita, dalla famiglia al lavoro, dalla casa alla strada, nella relazione di dono che puoi scegliere di vivere. Così il segreto della vera gioia è scoperto: solo se doni te stesso, anche attraverso la tua condivisione, l’onestà e il rispetto per gli altri, solo così potrai vedere la gioia negli occhi e nel cuore di tuo fratello, chiunque sia, e questa gioia-vera ritornerà a te e riempirà il cuore della tua vita. Davvero, dirà il Messia, “c’è più gioia nel dare che nel ricevere”, per questo si è fatto Emmanuele, Dio-con-noi. Si è donato nella mangiatoia e nella croce, per amore nostro, per farci felici nel dono della sua vita per tutti. Si è donato perché anche la sua gioia sia piena. Quanta acqua è passata sotto i ponti, quante storie di vita donata durante la grande guerra e nel dopoguerra, quanta resistenza e resilienza nel popolo oppresso, quanti sogni di una costituzione e di un concilio per una Chiesa nuova e una Stato giusto, quanta sete di autenticità nei giovani che vivono il volontariato e che cercano la pace, quella vera! Non lasciamoci rubare la Speranza dai fumi delle nebbie inquinate di populismo, violenza, individualismo e interesse. Ritorniamo al dono e alla gratuità delle cose semplici e belle. Teniamo unite la povertà dei Pastori e la generosità del Magi perché ancora, nel silenzio di Maria e Giuseppe, la Vita vinca la morte. Buon Natale, per una nuova Umanità che risorge dalla cenere delle troppe guerre, capace di abbracciare l’Uomo e il Creato, libera dalla pesantezza del consumismo e di false sicurezze. Buon Natale di luce e di speranza per tutti. Da questa Amazzonia, terra per molti aspetti incontaminata nella natura e nei suoi popoli nativi, da qui lanciamo il grido della pace: restiamo umani! Gabriel Carlotti – missionario in Amazzonia Santo Antônio do Içá, 15 dicembre 2024 – domenica della gioia   LUGLIO 2024 A don Paolo Bizzocchi, al CMD e tutti gli amici della nostra Chiesa Caro don Paolo, benvenuto in Amazzonia! Abbiamo saputo della tua disponibilità per la missione, e nello specifico per la nostra missione reggiana nella diocesi di Alto Solimões – Amazonas. Sono passati quasi 5 anni da quando abbiamo iniziato il nostro servizio nella parrocchia di Santo Antônio do Içà, e sta giungendo il tempo opportuno per un avvicendamento. La nostra presenza qui è legata ad una scelta della Chiesa reggiana più che a una volontà personale; un dato interessante della nostra esperienza di missione ‘ ad extra’ è che è la scelta di una Chiesa più che di individui. Non è quindi il singolo che si impegna per tutta la vita in paesi stranieri ma una Chiesa diocesana (in tutte le sue componenti) che si impegna per affiancare altre Chiese per un periodo, in base alle necessità. Vorrei fare alcune sottolineature: 1. Non è facile uscire dalla propria terra a 60 anni, non per turismo ma per immergersi nella realtà di un popolo ancora sconosciuto, accettare le sfide di una chiesa diversa da quella reggiana, adattarsi a un clima e linguaggio diversi, entrare con la umiltà di chi non vuole imporre ma anzitutto ascoltare, capire; e anche accettare l’inevitabile disorientamento di chi proviene da una cultura e società ben diverse. L’incontro con l’altro, con il diverso, ci spinge sempre a una conversione che altrimenti non faremmo! 2. Con la esperienza del seminario e della parrocchia hai maturato questa disponibilità che è un segno molto bello anche per gli altri presbiteri della nostra diocesi; uscire e andare in altre terre significa : accettare di non sclerotizzarsi in ruoli già predefiniti, avere la libertà del cuore di lasciare ( per un certo tempo) legami significativi e magari gratificanti per iniziare altre relazioni con logiche diverse. Nella nostra regione amazzonica significa incontrare soprattutto persone povere, che vivono di ciò che è strettamente essenziale; vivere in una Chiesa cattolica povera in mezzo a tante altre Chiese cristiane: non attenderti enormi comunità o grandi masse di fedeli ma la povertà di piccole comunità ancora molto fragili sulla propria identità di fede. 3. La diocesi di Alto Solimões si estende geograficamente per uno spazio molto grande e ha ancora bisogno di presbiteri provenienti da altre zone, che aiutino, cercando di accompagnare una sua maggiore autonomia per i prossimi anni. Ha ancora senso che la diocesi di Reggio Emilia mantenga il suo impegno qui, pur con le necessità che ci sono in terra reggiana. Da lontano mi rendo conto di come la Chiesa reggiana sia ricca di laici, uomini e donne, che hanno una ottima formazione, buone conoscenze in campo teologico, biblico e che possono assumere con competenza tanti aspetti della vita pastorale e questa è una grande speranza. 4. Avrai la possibilità di un annuncio del vangelo in una delle periferie del mondo; siamo di fatto isolati (si arriva solo con la barca), lontani dalle città, un basso livello culturale; le comunità che vivono lungo il fiume Içà sono ancora più isolate, passano la vita quasi solo all’interno della propria piccola cerchia di conoscenti; un popolo che non conta molto, senza potere, e dipendente da altri. Ma comunque persone, figli e figlie di Dio, con una dignità e portatori di una esigenza di vita e speranza. È una grazia imparare che si può vivere in modo diverso da quello occidentale, capitalista, pragmatico, materialista, arrivista. La maggioranza delle persone qui non ambiscono a promozioni, a scalare gradini sociali, ma la grande ambizione è una vita tranquilla con la propria famiglia, avere una casetta semplice e il cibo necessario per sé e i figli. Non cercano il lusso o il potere ma una vita buona. Si può imparare molto da questo punto di vista. 5. La missione è in equipe, con altri, (dovrebbe esserci la collaborazione con un altro prete reggiano), con le Missionarie e i laici delle diverse comunità. Vivendo come parroco di una Unità Pastorale con tante parrocchie, avrai certamente imparato a lavorare dando spazio alle diverse comunità e a prendere decisioni con loro. Speriamo che tu possa trovarti bene, e che la Diocesi di Reggio continui ad accompagnarti in questa scelta significativa, con la preghiera, la condivisione concreta e l’amicizia Don Gabriele Burani – missionario diocesano in Amazzonia Santo Antonio do Içá, 10 luglio 2024   MAGGIO 2024 DROGA La nostra è la regione della cosiddetta ‘triplice frontiera’, dove Brasile, Colombia e Perù si incontrano; e la nostra parrocchia, seguendo il fiume Içà- Putumayo giunge al confine con Colombia e Perù. Il consumo di cocaina sta nel mondo sta crescendo, una notevole crescita negli ultimi anni, Italia compresa. E la produzione è ovviamente in aumento; Colombia e Perù producono più del 80% di coca a livello mondiale. Erano stimati 204.000 ettari di terreno coltivato per la produzione di coca nel 2021 in Colombia; navigando sul nostro fiume Içà e sul Rio delle Amazzoni ( o Solimões) la droga arriva a Manaus o altre città brasiliane, poi per il mercato europeo e asiatico. La zona in cui abitiamo ( Alto Solimões) è diventata una delle maggiori al mondo per il traffico di cocaina; la città di Santo Antonio si affaccia proprio nel punto di incontro dei due grandi fiumi, passaggio di grandi quantità di cocaina. La Polizia Federale a volte sequestra carichi di coca, ma ci sono solo 4 agenti su un territorio vasto, e una ricca ragnatela di fiumi grandi e piccoli e canali nascosti dalla esuberante foresta equatoriale. A Tabatinga, la città maggiore e sede del vescovo, operano da anni gruppi criminali che si dividono il territorio, spesso con scontri tra loro e parecchi omicidi. Da noi a Santo Antonio sembra più tranquilla la situazione, forse meno appariscente la criminalità, anche se si dice che chi è ricco in città è per il traffico di droga. Non ci sono molti omicidi come in altre zone del Brasile, ma ci sono punti di vendita di sostanze in molti posti della città; tante persone, di tutte le età ma soprattutto giovani, consumano hashish e quella che chiamano ‘pasta base’ della cocaina. Moltissime le persone con problemi di alcool, considerando che gli Indios, anche con un consumo moderato, facilmente si ubriacano; in ogni caso la moderazione non è il loro forte: quando si incontrano possono bere 15- 20 lattine di birre ciascuno, più volte la settimana, perdendo dignità, perdendo il rispetto per se stessi e per gli altri. Qui da noi, come in Italia e tante altre parti del mondo, coca e alcool distruggono le famiglie, inducono a comportamenti violenti e distruttivi, causano grandi sofferenze. Non si nota una volontà seria di combattere il traffico; anzi, molti ci dicono che la Polizia riceve soldi dai piccoli trafficanti diffusi in tutta la città. CHE FARE? Difficile contrastare questa tendenza, ma stiamo cercando di fare qualcosa, da due punti di vista: 1: La vita parrocchiale, con l’annuncio del vangelo, la liturgia, le relazioni comunitarie… la vita di fede dà un senso alla vita; la sequela di Gesù Cristo non è alienazione ma, al contrario, è un grande antidoto alla alienazione, è un lottare con tutto se stessi per la realizzazione del Regno di Dio qui sulla terra; la vita Cristiana educa al rispetto di se stessi e degli altri e ad accogliere con gioia la propria dignità di persona amata da Dio; è un dato molto importante per la nostra gente. 2. In città abbiamo attivato tre gruppi di incontro per chi vive situazioni di dipendenza e per i famigliari; si possono definire gruppi di auto-aiuto, tutti con una dimensione spirituale Cristiana. Un gruppo si ritrova nei locali del Comune , nella sede dei Servizi Sociali; altri due in parrocchia, uno è accompagnato dalla ‘Pastoral da sobriedade’, un altro è più specifico per chi decide di entrare nella comunità terapeutica ( Fazenda da esperança) e accetta un periodo di preparazione necessario. Per ora gruppi di poche persone rispetto al grande numero di famiglie con problemi di dipendenza ma era per noi importante iniziare, soprattutto per dare una possibilità per affrontare questo male a tante persone che comunicano la loro sofferenza e disperazione. Interessante il fatto che questo è uno dei pochi luoghi ecumenici; è nata una bella collaborazione tra cattolici e fedeli di altre chiese protestanti (cosa assai rara!), inoltre proprio le persone che erano schiave della droga si dedicano con grande impegno a servizio degli altri. Non dobbiamo rassegnarci alla impotenza di fronte alla distruzione; è sempre possibile aprire percorsi di vita e speranza collaborando con altri rafforzando gli aspetti positivi della nostra umanità. Don Gabriele Burani – missionario diocesano in Amazzonia Santo Antonio do Içá, 15 maggio 2024   MARZO 2024 RICOMINCIARE: STAGIONI DELLA PASTORALE GIOVANILE Arrivato a Santo Antonio do Içá, nel Consiglio Pastorale ho proposto che si iniziassero gruppi di giovani nelle comunità. Per il momento due comunità avevano un gruppetto di giovani con attività organizzate ma di fatto, uno di questi ( nella comunità del centro del paese) non si incontrava più . Abbiamo deciso di organizzare domeniche pomeriggio di incontro-animazione nelle varie comunità cercando di individuare qualche adulto responsabile e invitare i giovani della comunità – bairro, a riunirsi. Nel giro di qualche mese in quasi tutte le comunità della città si era formato un gruppo di giovani che si riuniva. In realtà non era la fascia dei cosiddetti ‘giovani’ ma adolescenti dai 13 ai 17 anni; con i giovani non siamo riusciti a realizzare proposte specifiche perché dai 18 anni, concludendo il ciclo scolastico avvengono cambiamenti significativi: qualcuno inizia una facoltà universitaria, a Manaus o altre città. (A Santo Antonio abbiamo ancora molto poco a livello universitario). Altri iniziano a fare qualche lavoretto; altri già hanno un impegno di famiglia, infatti diverse ragazze adolescenti hanno figli. Qualche adulto delle comunità ha accettato di accompagnare il percorso spirituale degli adolescenti MA……per poco! Dopo un anno, due anni tutti i giovani-adulti che si erano impegnati per accompagnare gli adolescenti, hanno lasciato. Qualcuno perché trasferito altrove, qualcuno per gli orari di lavoro troppo pressanti, altri per de-motivazione, difficoltà nel lavoro con gli adolescenti; qualcuno si è reso disponibile per la catechesi ai bambini ma non con i giovani. E senza adulti di riferimento, i gruppi di adolescenti si sono sfaldati. Che fare quando qualcosa finisce? Ricominciare. Non sempre vale la pena, ci sono realtà della pastorale che è bene lasciar morire, ma nel caso nostro, abbiamo pensato di continuare a lavorare per la Pastorale Giovanile, almeno tentare. Con Virginia, una missionaria che viene dall’ Uruguay con una esperienza di oratorio salesiano, abbiamo continuato, con persone nuove, un coordinamento di Pastorale Giovanile. Poche persone, ma pensiamo sia importante fare proposte di evangelizzazione per gli adolescenti. Per ricominciare l’anno pastorale è stato proposto un evento do tre giorni ( anche dormendo fuori casa) in uno spazio che un pastore protestante ci ha prestato. Da cinque anni non si faceva un incontro di questo tipo; noi non abbiamo strutture e solo pochi mezzi, per cui non è piuttosto impegnativo organizzarlo, ma i ragazzi che hanno accettato il nostro invito hanno partecipato lasciandosi coinvolgere e tornando in famiglia entusiasti. Ora dobbiamo dare continuità nelle proposte della vita ordinaria delle comunità. Osservazioni – Le nostre comunità cattoliche difficilmente hanno forze, disponibilità, voglia o capacità per accompagnare gli adolescenti e giovani. Molte volte parole di critica: i giovani non vengono, i giovani, non fanno, i giovani non si impegnano….. ma noi adulti li stiamo accogliendo, accompagnando, ascoltando, aiutando? – Saper ricominciare. Abbandoni, fallimenti, stanchezza… per tante motivazione certe esperienze finiscono ma se vale la pena ( se sentiamo che è volontà di Dio) bisogna sempre ricominciare. – Scopriamo sempre una bellezza nell’animo degli adolescenti, un accendersi di desideri buoni, una volontà di spendersi , una ricerca di Dio. Mi chiedo se i ragazzi vedono nelle loro famiglie, nelle comunità persone animate dallo Spirito Santo, persone che amano la vita, persone positive che testimoniano la bellezza della vita evangelica. – E’ importante per gli adulti assumere le contraddizioni, incertezze, incostanze dei più giovani. E’ un ‘mestiere’ degli adulti dare stabilità, fermezza, perseverare nelle prove… insomma, manifestare che c’è qualcosa ( qualcuno) per cui vale la pena vivere. Buona Pasqua a Tutti, con la forza di ricominciare sempre! Don Gabriele Burani – missionario diocesano in Amazzonia Santo Antonio do Içá, 13 marzo 2024   GENNAIO 2024 FRATERNITÀ e SORORITÀ È il primo viaggio missionario del 2024, dal 10 al 23 gennaio, ogni Comunità ha il suo giorno fisso, per aiutare a ricordare il giorno della messa mensile. Qualcuno ricorda, molti no, ma noi continuiamo fedeli, secondo il proverbio: “Acqua molle in pietra dura, tanto batte che alla fine fura”. Abbiamo incontrato le tre Comunità del Solimões e siamo entrati nella foce dell’Içá. Nossa Senhora de Nazaré, São João do Japacuá, Santa Maria e, finalmente, Vista Alegre, Comunità indigena Ticuna. Sono 18 famiglie, la maggioranza molto giovani, ma non mancano i nonni, gli anziani che si riempiono gli occhi di speranza vedendo crescere i molti nipoti. Arriviamo presto, verso le tre del pomeriggio e subito siamo accolti da un picchiettare di martelli. Gli uomini stavano lavorando per rifare la copertura di una grande cucina comunitaria, dove si prepara la farina di manioca e la macaxeira, con tre grossi forni per cuocere e avere le provviste per il tempo in cui l’acqua coprirà la terra e non si potrà più piantare. I più giovani stavano sul tetto e gli anziani a terra passando il materiale per la copertura. Santiago e Moisés, cassique e pajé, dirigono i lavori perché tutto sia fatto secondo una logica comune. È bello vederli lavorare in armonia per qualcosa che non è di qualcuno in particolare, ma appartiene a tutti, è per la vita della Comunità. Sentiamo il motore di due canoe che si avvicinano, caricate fino al limite dell’acqua con manioca e macaxeira. Sono le donne alla conduzione e alcuni adolescenti, giovani e ragazze, le accompagnano. Raggiunta la terra, subito c’è un gran movimento e vengono riempite grosse gerle di vimini e comincia una lunga processione di donne, ragazze, giovani e anche alcuni bambini, tutti caricando il peso appoggiandolo sulla testa con un robusto laccio di cipó ricavato da una pianta. Io non riuscirei, da solo, a sollevare una di queste gerle, ma due aiutano il portatore a caricarla sulla schiena e ad assicurare il laccio sulla testa. Così il peso è spalmato sulla colonna vertebrale e ognuno riesce a portare la grande gerla. Nel mentre vedo alcuni anziani attivare una specie di grande grattugia mossa a motore e man mano che arrivano le gerle piene, subito il prezioso contenuto viene grattugiato. Dovrà essere pressato per togliere l’acqua velenosa e cotto nei grandi forni della cucina comunitaria. All’improvviso un urlo interrompe l’armonia del lavoro comunitario. I bimbi si divertono a tuffarsi nel fiume e le mamme si sgolano avvertendoli che è pericoloso ora che l’acqua è alta, ci possono essere dei serpenti. Di fatto, dall’alto, gli uomini vedono una sucurí (serpente velenoso che può raggiungere anche i cinque metri di lunghezza) avvicinarsi. Immediatamente un giovane si tuffa e con un grosso bastone e macete riesce a uccidere il pericoloso animale, ora collocato sulla riva del fiume per ricordare il pericolo sempre presente. Vedo una mamma correre alla canoa con un remo in mano, si allontana alcuni metri fino a raggiungere un ragazzino, suo figlio, conosciuto da noi come “il pescatore”, perché sempre intento a pescare. Lo chiama, lo fa salire sulla canoa, lo porta a riva e appena scesi, con un balzo, gli mette il remo sul collo facendolo sdraiare a terra e tenendolo ben fermo in quella posizione scomoda. Poi lo lascia andare e segue un pianto inconsolabile. Ora “il pescatore” sa che deve obbedire perché il pericolo è sempre alla porta e non si scherza con la sucurí. Tutti gli altri hanno già ripreso il loro lavoro, non si sono ufficialmente accorti dell’azione educativa di questa mamma, ma la guardano compiacenti, come per approvare quel gesto così forte che potrà salvare la vita del suo bambino. Quest’anno la Campagna della Fraternità, che accompagna il tempo che precede la Pasqua, un modo brasiliano di vivere la quaresima, ha come tema: “Fraternità e amicizia sociale” – “Voi siete tutti fratelli e sorelle (Mt 23,8)”. Vuole essere una risposta, una medicina, per guarire la grande malattia del nostro tempo, un super individualismo che produce una fobia verso tutto e tutti che sono diversi da noi. L’ Amicizia Sociale è “l’amore che supera le barriere geografiche e spaziali” (papa Francesco). Vuole essere la fine dell’indifferenza, dell’odio, delle divisioni e guerre, superando questo sistema che gonfia l’individuo a scapito delle grandi cause sociali e comunitarie. L’Amicizia Sociale non esclude nessuno, è una fraternità aperta a tutti. Occorre andare oltre le apparenze, fisiche e morali, e considerare l’altro come prezioso, degno, apprezzabile e buono. Amare l’altro per ciò che è, questo ci spinge a cercare e fare sempre il meglio per la sua vita. Pensando alla Campagna della Fraternità di quest’anno e vedendo il lavoro fatto insieme e con armonia degli indigeni Ticuna mi veniva in mente il volontariato della nostra terra reggiana, tanta gente spendendosi per una causa comune, dalla Croce Rossa al Carnevale, dallo Sport alle feste di paese. Come sarebbe importante che lo spirito del volontariato, fiore all’occhiello di noi reggiani, illuminasse i nostri occhi e il nostro cuore quando guardiamo all’altro, chiunque egli sia, senza giudizio e senza preconcetti, ma come fratello e sorella con i quali condividere e costruire un Mondo migliore, un Mondo giusto e fraterno. Che ci fosse una causa comune, come la pace e la convivenza tra i popoli, come il valore inalienabile della persona, come il futuro per il nostro pianeta Terra e pianeta Acqua, la salvaguardia del Creato e il diritto alla vita per tutti, iniziando dai più deboli; che ci fosse una causa comune capace di creare armonia. Come è importante che le nostre Parrocchie riunite in Unità Pastorali imparino a guardare con occhi positivi, senza giudizio e senza preconcetti a tutte le persone e a ognuna in particolare. Promuovere e valorizzare la partecipazione di tutti, senza esclusioni di appartenenza politica, di situazione ecclesiasticamente ‘regolare’, di nazionalità e religione; accogliere tutti come fratelli e sorelle per offrire una Speranza, per la costruzione di un nuovo Umanesimo, ina nuova Società dove l’amicizia e il rispetto vincano l’individualismo e la paura dell’altro. L’Amicizia non è qualcosa di naturale, non è un legame di sangue, ma è una scelta libera e personale. Per questo è frutto di conversione: occorre, liberamente e con gioia, scegliere di farci amici, farci prossimi. Una Società dove sparisca l’interesse privato a favore di un volontariato per il Bene Comune. Così continuiamo il nostro viaggio, dobbiamo arrivare alla Comunità di San Pietro per condividere una situazione spinosa. Abitano e piantano su questa terra ai margini del grande fiume da più di 40 anni. Sono nati qui e qui sono nati i loro figli. Ora è apparso un signore della città, accompagnato dalla polizia locale e affermando di essere il proprietario di questa terra. Non vuole mostrare i documenti, ma si presenta con un mandato del giudice locale, notoriamente corrotto. Chiede 35.000 reais per vendere la terra a coloro che la possiedono per diritto già da una generazione. Così, come equipe missionaria, ci stiamo attivando, raccogliendo testimonianze e con l’aiuto de un avvocato del CIMI (Consiglio Indigenista Missionario), una Pastorale della Chiesa cattolica brasiliana, proveremo ad impedire una ulteriore usurpazione del diritto dei popoli indigeni in favore delle leggi dei colonizzatori. Sarà una lotta lunga e ardua, ma val la pena difendere il diritto alla vita di chi vive di pesca e di agricoltura, nato su questa Terra madre, anche senza possedere un titolo legale. Il diritto alla vita precede il diritto alla proprietà privata. Mi ricordo, nel tempo in cui ero missionario in Bahia, nella Diocesi di Ruy barbosa, le prime occupazioni dei ‘Senza Terra’ per una riforma agraria, perché la terra sia di chi la lavora e produce. Anche nell’ultima grande secca, chi ha distribuito viveri in quantità per le persone che stavano soffrendo, sono stati i grandi Assentamenti di Riforma Agraria: il “Movimento dei Senza Terra” ha condiviso ciò che la Terra madre ha prodotto con il sudore dei suoi figli. Nordest o Amazzonia, cambia la latitudine, ma il grande problema del Brasile si ripresenta: l’ingiustizia che produce povertà e miseria. Che la Quaresima sia tempo di conversione riscoprendo la fraternità universale che ponga fine alle guerre e ai conflitti di interesse. Conversione perché si faccia giustizia e si riconosca il diritto universale di tutti i popoli: una Terra per abitarci e per produrre l’alimento per vivere in pace. Quella pace che viene dal Dio della Vita e che è frutto della giustizia. Buon cammino di Quaresima a tutti e a tutte, Buona Pasqua di Risurrezione per una vita di fraternità e sororità tra tutti i popoli, per costruire Amicizia e Convivenza Sociale. Don Gabriel Carlotti – missionario diocesano in Amazzonia Santo Antonio do Içá, 25 gennaio 2024 – Festa della conversione di San Paolo apostolo   DICEMBRE 2023 AVVENTO -NATALE 2023 Carissimi, a voi che collaborate con il Centro Missionario donando un vostro contributo per la Missione Reggiana in Amazzonia, il nostro ringraziamento e una piccola riflessione sul Natale. Il mistero del Natale cristiano è la storia di Dio che si fa uomo per rendere gli uomini più umani; si, di questo abbiamo bisogno, trovare la nostra piena umanità. Siamo disumani quando ci distruggiamo a vicenda per motivi economici, politici, religiosi. Siamo disumani quando accettiamo e alimentiamo le grandi ingiustizie che ancora feriscono l’umanità; siamo disumani quando l’indifferenza appiattisce la coscienza e non ci permette di soffrire con chi soffre e gioire con chi gioisce; siamo disumani se inquiniamo e sfruttiamo senza porre limiti il mondo che ci è stato affidato; siamo disumani se non diamo il tempo giusto per la famiglia, i figli. Il cristianesimo vuole essere una umile presenza umanizzante, che crea relazioni autentiche e che dopo tanti anni di storia ancora crede e spera e si impegna per un mondo migliore, un mondo più umano e, per questo, esperienza effettiva del Regno di Dio. Grazie di cuore a tutti voi e che il tempo di Avvento e Natale alimentino la nostra speranza e la perseveranza nell’ accogliere il vangelo di Gesù. Ho ascoltato in questi giorni una parola molto bella su Giovanni il Battista, personaggio simpatico che, assieme a Maria ci accompagna al Natale. Chiedono ad Elisabetta che nome dare a questo figlio avuto in età già avanzata. Lei risponde: si chiamerà Giovanni. Ma Giovanni non è un nome di famiglia, nessuno ha usato questo nome prima, è una rottura con il passato. Allora chiedono a Zaccaria, che era muto, visto che è il padre a dover dare il nome. Zaccaria prende una tavoletta e scrive: il suo nome è Giovanni, e recupera la parola sulla sua bocca. Vivere la Missione è un po’ così, rimanere aperti alla novità di Dio che sempre ci viene incontro nella vita delle persone. L’Altro: indigena Ticuna, Kocama, Caixana, Cambeba; il Caboclo figlio di europei e donne indie; abitante della città, del centro o della periferia; ribeirinho che vive lungo i fiumi di pesca e di caccia; lo straniero e il migrante; tutti siamo il mistero del nuovo che irrompe nella storia. Anche questo è Natale, la ricchezza di condividere la diversità e accogliere il dono di ogni persona: la gioia del bambino che nasce e la sapienza di molti anni dell’anziano, tesori custoditi dall’unica Comunità. Così la Missione non sarà mai migliore o peggiore della nostra quotidianità, ma ci aiuta sempre ad allargare i nostri orizzonti verso una fraternità universale. Così è stato il cammino della Buona Notizia che non poteva rimanere rinchiusa nella nazionalità di un popolo, e si è aperta per tutti i popoli della Terra. Credo che partecipare del cammino della Missione con la preghiera, l’ascolto e la condivisione della nostra vita, dei piccoli progetti rivolti ai più bisognosi, l’attenzione ai poveri, ci siano sempre di grande aiuto, affinché la Buona Notizia del Vangelo, la pace e la giustizia siano ancora speranza. Grazie davvero a tutti per il sostegno e l’amicizia, Buon Natale, novità di speranza e di pace! Don Gabriele & Gabriel – missionari diocesani in Amazzonia Santo Antonio do Içá, dicembre 2023   GIUGNO 2023 Comunità Rio Içà, 18-26 giugno 2026 Partiamo da S. Antonio domenica 18 giugno 2023, alle 12:30. Io, Moises, Moacir e Mariana. Arriviamo a Santa Maria alle 17. Qui ci accoglie una coppia di sposi, Valdi e Maria Joana, con i loro figli e nipoti, una famiglia grande con varie famiglie. Verrà ad abitare qui anche una figlia che ora è in città con una figlia che ha problemi di cuore. La cappella, gialla, è nuova, costruita in aprile, con il loro lavoro (e aiuti dall’Italia). Li ricordo perché, con alcuni bambini, hanno partecipato pochi giorni fa alla assemblea parrocchiale. Non hanno la corrente elettrica, il generatore è rotto da tre mesi. Celebriamo la messa alle 18, quando ancora ci si vede con la luce naturale: 12 persone, la coppia più adulta e figli e nipoti. Con Mariana la missionaria facciamo una prova di canti, e loro cantano bene. Ancora non si incontrano per celebrare la domenica, ma il sig. Valdi mi dice che ora, con la cappella, intendono fare la celebrazione domenicale. Un dei figli è professore, insegna nella sua casa perché non hanno un edificio-scuola; d’altra parte ci sono solo 10 alunni. Mariana si fermerà con loro un giorno, poi la porteranno alla comunità vicina. Virginia la raggiungerà e faranno il loro percorso fermandosi un paio di giorni nelle comunità. Veniamo assaliti dalle zanzare e cerchiamo rifugio sulla barca! (Per la prossima messa ci saranno due bambini da battezzare). Lunedì 19 giugno, partiamo alle 7:30 e arriviamo a União da boa fé alle 9:15. Poche case (ne vedo 4), si nota la cappella che quando arriviamo sta funzionando come Scuola materna, e davanti una costruzione aperta che per ora è la scuola per i più grandi. Ci accoglie il cacique quando approdiamo e alcune giovani donne; riconosco il gruppo che ha partecipato alla Assemblea parrocchiale. Ci fermiamo a chiacchierare e alle 10 celebriamo la eucaristia. Arrivano i bambini davanti all’altare; un giovane, Thailon e una ragazza, Luciana, scelgono i canti e fanno le letture. Hanno il libretto dei canti e tutti cantano durante la celebrazione; loro si incontrano sempre la domenica per la celebrazione. Li invito a pensare alla catechesi e mi dicono che hanno un po’ iniziato, anche se non in modo continuativo. Alla messa partecipano 5 adulti, 7 giovani, 14 bambini; le famiglie qui sono tutte cattoliche e mi dicono che avrebbero intenzione di ampliare la cappella; alla fine della celebrazione i bambini condividono i biscotti che abbiamo portato e guardano le fotografie che ho scattato. Mi sembra una buona comunità, si respira un clima di famiglia e simpatia. Anche per loro l’handicap della mancanza di energia elettrica; avevano un generatore ma è rotto da anni (possibile che non ci sia modo di aggiustarlo, mi chiedo). Alle 16 messa a Manacapuru. Ci sono 3 adulti e 7 bambini piccoli; non sanno i canti della liturgia e facciamo qualche prova prima; nemmeno qui arriva la elettricità e per mantenere in fresco le cose, come il pesce che pescano, (in questo clima caldissimo) vanno a Santo Antonio, comprano sacchi di ghiaccio per metterlo nelle casse di polistirolo dove si conserva il pesce per un po’. Partiamo per Nova Esperança I, messa alle 19. Partecipano 17 persone (adulti, giovani, bambini); ancora non sanno scegliere i canti per la liturgia così io e Moises li aiutiamo con i canti e le letture. Sono poche le famiglie, comunque mi dicono che alla domenica si incontrano per celebrare. L’orario serale è il più affollato per zanzare e altri insetti, siamo assaliti…. Martedì 20 giugno,  partiamo alle 7:30 e arriviamo a S.Lazzaro alle 16; vedo 8 case e la cappella, dal tipico colore giallo di quelle costruite negli ultimi anni. Chiacchieriamo con Valdeci e la sposa che hanno partecipato alla assemblea delle comunità; una bella famiglia, ci sono 5 bambini e una ragazzina (13 anni) sta studiando a Santo Antonio. Ci raccontano di un incidente accaduto ieri: tagliavano legna nella foresta un anziano e un giovane della città venuto ad aiutare nel lavoro e un albero è caduto sul giovane, ferendolo, che è rimasto privo di sensi perdendo sangue. Erano a una ora di cammino dal villaggio e l’anziano non sapeva proprio cosa fare; non sapeva come soccorrerlo, si è incamminato per avvisare nel villaggio, dove sono riusciti a telefonare i responsabili della assistenza medica, che hanno inviato una barca per il soccorso. Ora è in ospedale, non sappiamo quali siano le condizioni. Nel pomeriggio parliamo anche con la signora che ci ha ospitati in casa, ci comunica il desiderio di avere qualche lezioni per continuare gli studi; ha frequentato i primi anni di scuola poi si è fermata; i suoi genitori non permettevano di uscire dalla comunità così è sempre rimasta lí e ora desidererebbe (e anche altri adulti) studiare ancora un pò. Penso che l’Ufficio Scuola potrebbe nominare un professore per il gruppo di giovani-adulti che vorrebbero continuare gli studi. Mi sembra una bella esigenza da parte sua. Ci ritroviamo nella cappella alle 19 e facciamo prove di canto con i bambini, poi celebriamo la eucaristia con 8 adulti e 11 bambini, ancora piccoli, ma partecipano; mi sembrano buone famiglie. Un giovane che suona la tastiera nelle celebrazioni festeggia il compleanno oggi; per ora la tastiera rimane ferma, il trasformatore è bruciato, dovrà cercare a Santo Antonio uno nuovo. Mercoledì 21 giugno, partiamo alle 6:30. Arriviamo a Apaparí alle 9:15. Comunità che è solo una famiglia e il capofamiglia con gli altri é in questi giorni a Santo Antonio. A casa un figlio e alcune persone che lavorano per la famiglia. Per coincidenza quando noi arriviamo arrivano anche loro su due barche, dopo un giorno di pesca; hanno tre pirarucu di circa 1 metro e due sui 2 metri; hanno i fucili, hanno cacciato e hanno preso una paca (grosso roditore) e un uccello grande come un gallo. Con destrezza, usando grossi coltelli, squamano e puliscono i pesci, mettendoli nel ghiaccio per poi venderli a S. Antonio (e da Santo Antonio, una parte per Manaus e Leticia in Colombia). Chiedo se posso comprare il tambaqui (un pesce) e ce lo regalano per il pranzo. Dato che la famiglia non è presente, continuiamo il viaggio. Alle 16,40 arriviamo al Sitio Nova Esperança, luogo molto bello; abita una sola famiglia, allevano mucche, pecore, galline. Erano a Santo Antonio per la assemblea delle comunità e ancora non sono tornati, è rimasto solo uno dei figli come custode della casa (anche qui, quando la casa è vuota, arrivano i ladri) e prendersi cura degli animali. Quando scendiamo dalla barca ci accoglie un cinghiale nero, addomesticato e affettuoso, che si ferma accanto a noi per ricevere carezze. Molto simpatico! Rimaniamo a parlare con il ragazzo, poi si riparte per la vicina comunità di Itu. Alle 19 celebriamo con la coppia che ci ospita nella loro casa (donna Helena e il marito), una figlia e 8 nipoti dai 14 a un anno di età. Prima della messa con i bambini faccio prove di canto; sono tutti battezzati, tranne la bambina più piccola. Sarebbe cosa buona organizzare una catechesi per i più grandi, ancora non siamo riusciti. Giovedì 22 giugno, partenza da Itu verso le 8 Alle 10 arriviamo a Mamuriá; ci accolgono sulla riva, con un canto di benvenuto. Gli alunni della scuola interrompono la lezione quando arriviamo; chiacchieriamo, ci aggiornano sull’intervento della polizia per distruggere alcune delle draghe illegali che cercano oro sul Juí e Purité, affluenti del rio Içá. Pensiamo che sia stata fatta una azione in grande stile, ma tornando a casa apprendiamo che i garimpeiros hanno saputo in anticipo della azione e hanno nascosto le loro draghe, cosí che la azione non è stata tanto efficace. Nella comunità abbiamo un gruppo di adolescenti così li invito per un piccolo incontro biblico; tutti vengono con la bibbia e il libro dei canti; faccio un ripasso sulla ricerca dei testi biblici (libro, capitolo, versetto) e cerchiamo qualche testo sulle caratteristiche di Gesù: un miracolo di guarigione, una parabola, la scena della morte in croce. Celebriamo la messa, 20 persone presenti, qui abbiamo anche un ministro della Parola e uno della Comunione. Tutti cantano alla celebrazione, è una liturgia partecipata. Ci invitano a pranzo nella casa di Assis (10 figli, solo uno maggiorenne), mangiamo insieme pirarucu, riso e uova. Una loro difficoltà è la scuola: sono in una stanza ormai vecchia, con il legno deteriorato; hanno chiesto al municipio di costruire una scuola nuova, ma non è stata fatta. In realtà gli alunni non sono molti, forse stanno programmando di unirli ad una altra comunità. Alle 14:30 ripartiamo, alle 17 arriviamo a Barro Alto, una comunità nuova che ancora non conosco. Sulla riva ci accolgono due simpatiche bambine, Alexandra e Maria Vittoria. Poi conversiamo con gli adulti. È la quarta volta che si visita questa piccola comunità, un gruppetto di famiglie. Stanno sistemando una area per coltivare manioca, vedo due case con le pareti di legno e altre che hanno solo il pavimento e teloni di plastica come pareti. Seduti sul pavimento di legno impariamo qualche canto poi celebriamo la messa prima del tramonto, perché non hanno elettricità): sono 5 bambini e 7 adulti. Vorrebbero costruire una cappella e dare il nome alla comunità, quando tutto sarà pronto: San Giuseppe. Comincia la notte e scendiamo alla nostra barca; ci regalano un pezzo di carne di cinghiale per la cena. Venerdì 23 giugno, partenza alle 7,45. Alle 9:30 arrivo a Ipiranga. I militari impegnati a tagliare erba; entriamo nella cappella per pulire e la troviamo in ordine. Vorrei visitare la prima cittá colombiana, Tarapacá, ma non abbiamo con noi la bandiera della Colobia, quindi Moises mi dice che non possiamo andare. La messa alle 20.00; un giovane suona qualche canto con la chitarra; è ancora alle prime armi, conosce solo pochi canti ma riusciamo a organizzare la liturgia. Pochi partecipano: questo giovane e il fratello, una coppia di anziani (di cui il marito non vedente), una signora e qualche ragazzino, 11 persone in tutto. Mi dicono che ora non si incontrano la domenica per celebrare, e dei soldati e ufficiali dell’esercito nessuno viene. In questa situazione non sappiamo a chi affidare le comunità. Sabato 24 giugno, Festa della Natività di S. Giovanni battista. Siamo a Nova Esperança II, celebriamo nella scuola con 17 persone. Il cacique Cristovão e coppie giovani con figli piccoli. Mi dicono che sono della Cruzada (e una famiglia protestante); il cacique è stato per 40 anni tra i responsabili della Cruzada e dato che abbiamo un unico Dio mi dice che è bene dialogare con tutti, accogliersi e si impara qualcosa da tutti. La sua volontà, come cacique è anche mantenere pace e armonia nella comunità. Accolgono il prete cattolico quando va per celebrare. Alle 11:30 ripartiamo. Alle 17:30 arriviamo a Santa Clara, è una sola famiglia: una coppia con figli e i loro figli. Facciamo solo un momento di preghiera e canti. Ci sono 8 bambini e 4 giovani-adulti, oltre al padre; hanno intenzione di costruire una piccola cappella. In futuro potremmo fermarci con loro con calma, e anche iniziare a celebrare la messa. Nova Canaan. Celebriamo alle 19:30 nella scuola, al buio. Hanno il pannello solare nuovo ma oggi non sta funzionando, forse non lo sanno gestire bene. Compaiono due candele, e con le nostre torce a pila possiamo celebrare. In 25 della comunità, 4 adulti e il resto bambini e qualche giovane. Si dovrebbe tentare di farli radunare la domenica e iniziare una forma di catechesi se si riesce a responsabilizzare qualcuno. Domenica 25 giugno, partiamo alle 8 Arriviamo alle 10:30 a S.Pedro. C’è la scuola nuova ma oggi è chiusa e il professore e la professoressa sono usciti essendo giorno di festa. Ci fermiamo davanti alla scuola, dove troviamo ombra, in cerchio; ci sono 15 bambini 2 giovani e 3 adulti. I bambini sono molto timidi, è difficile farli esprimere; mi dicono che quasi nessuno sa leggere e scrivere perché stanno ancora imparando. Facciamo insieme qualche canto, insegno a fare il segno della croce: la maggioranza è incerta sul come farlo. Preghiamo il Padre Nostro, leggiamo un brano del vangelo e condividiamo i biscotti e alle 11:40 ripartiamo. Arriviamo dopo una ora a Apaparí, è ora di pranzo. Ci sono solo giovani coppie che lavorano e pranzano e la famiglia che di solito ci ospita è fuori. Ci dicono che è meglio se celebriamo la messa il prossimo mese quando passiamo e ci saranno tutti. Alle 14 ripartiamo e arriviamo a Vista Alegre alle 18:30; comunitá tikuna, cattolica. Facciamo un giro per parlare con Moises, il ministro: è nella cappella con il cacique e un altro giovane, stanno facendo le pulizie e preparando la cappella per la liturgia. Una chiesa grande ancora da ultimare, la più grande tra quelle che ho visto e in muratura, con il pavimento in ceramica (per ora metà); è coperta ma mancano porta e finestre. È su una altura, qui non arriva acqua del rio Içá anche quando è in piena. Vicino un campo da calcio, ci sono molti giovani anche di altre comunitá, fanno spesso tornei sportivi. Alle 19:30 celebriamo la eucaristia, prima arrivano i bambini che si mettono davanti, poi giovani e adulti, circa 60 persone: canti e preghiere in tikuna, e il ministro traduce le mie parole dal portoghese. Si radunano sempre la domenica per il culto, ma anche altri giorni della settimana. Per quel che ho visto è la comunitá maggiore che abbiamo sul Rio Içá. Mi chiedono un aiuto per la formazione di catechisti della comunità che possano fare catechesi a bambini e adolescenti. Le missionarie potranno dare un aiuto, poi vedremo. (Il tema della lingua è sempre problematico, ma dovrebbe esserci materiale di catechesi in lingua tikuna). Lunedì 26 giugno, S. Cristovão I Arriviamo alle 10, ci sono le missionarie Mariana e Virginia dal giorno prima. Facciamo giochi con i bambini, un gruppo grande, con le mamme sedute che guardano contente. È una comunità con alcune famiglie cattoliche ( 5, mi pare) e il resto protestanti. La maggioranza dei bambini presenti sono di famiglie protestanti. Alle 11 celebriamo la messa, nella prima stanza di una famiglia che ci ospita, siamo ammassati in 50 ( anche bambini delle famiglie non cattoliche che sono rimasti con noi); ci fermiamo poi per il pranzo. La professoressa dice che comincerá a radunare la comunitá per la celebrazione della domenica. Alle 15 arriviamo a S. Vincente e alle 19:30 la eucaristia. Partecipano 12 persone; la ragazza che di solito anima la liturgia è fuori con il marito, per impegni scolastici. Il cacique arriva tardi, alle 21, perché ha avuto un guasto nella barca. Mi dicono che alla domenica si radunano per la liturgia. Dormiamo a S. Vincente e il giorno dopo si ritorna a Santo Antonio. Don Gabriele Burani – missionario diocesano in Amazzonia Santo Antonio do Içá, 29 giugno 2023     Viaggio Missionario Rio Içá – 2-6 giugno 2023 Sabato 2 giugno partiamo alle 12,30 di un caldo pomeriggio. Arriviamo alle 16,45 alla comunità di N.S di Nazaré; celebriamo in una casa. Alla messa 2 sposi adulti, 2 figli giovani e una signora con una figlia piccola. Si uniscono ai canti che io e Moises scegliamo, loro hanno ancora difficoltà nella scelta dei canti. La zona é allagata, non si vede terra; abbiamo molti delfini di fronte a noi. Alle 18 ripartiamo, arrivando a S.João de Japoacuà alle 19; un piccolo villaggio, arriviamo al tramonto con alcune persone sulla riva; si nota la cappella recente, con la croce sulla facciata. Entriamo nella nuova cappella di legno per la messa, alle 19:30 e la cappella é vuota; ancora non é entrato nessuno, non c’é tavolo e non ci sono sedie. Aspettiamo e pian piano qualcuno arriva; mi dicono che la tavola-altare é stata portata nella scuola; alcuni ragazzi portano due panche. Io mi metto in terra per la celebrazione e li invito a mettersi in cerchio; con Moises scegliamo i canti ( normalmente hanno una animatrice del canto, ma oggi non é presente); ci sono 27 persone, qualche adulto e la maggior parte bambini e ragazzi di 10-13 anni. Tutti fanno la comunione. La professoressa della scuola é anche catechista e ha fatto catechesi eucaristica per questo gruppetto ( anche se nel mese di maggio non si sono incontrati); il ragazzo che era un buon animatore della liturgia ora sta studiando a Tonantins quindi dovranno organizzarsi per le celebrazioni della comunità. La notte é fresca e silenziosa, si ascoltano le voci di vari uccelli, senza altri rumori; una esperienza che in altri luoghi é difficile per rumori di fondo continui, ed è molto bello rendersi conto della vivacità e varietà degli uccelli attorno a noi. Domenica 3 giugno, Solennità della SS Trinità. Partiamo alle 8,20 e arriviamo alle 16,20 alla comunità di S.Sebastiano I, allagata; si arriva alla casa in cui si celebra camminando sui tronchi di legno galleggianti. Ci aspettavano, la grande stanza con pavimento di legno é ben pulita e al centro la tavola con la tovaglia, per la eucaristia. Solo 5 persone, una coppia di sposi anziani e tre uomini della famiglia. Si chiacchiera un po’, poi la celebrazione: in pochi, ma con fede e attenzione. I due anziani andranno a S.Antonio nella casa di un loro figlio, nei prossimi giorni. In questi mesi con la comunità allagata la vita non é semplice; non lo é mai, ma ora che ci si può spostare solo con la canoa, senza un pezzetto di terra-ferma, specialmente per due anziani é complicato. Arriviamo poi a MOINHO, un centro maggiore, che raggiungiamo in pochi minuti. É tutto allagato ( ma l’acqua non arriva al pavimento delle abitazioni), ci sono persone davanti alle case, altri che si spostano in canoa. La messa dovrebbe essere nella scuola; con la nostra barca non é possibile attraccare accanto alla scuola perché davanti ci sono i fili della corrente elettrica; quindi ‘parcheggiamo’ vicino ad un albero, aspettando che qualcuno venga a aprire la scuola e a darci un passaggio in canoa. Aspettiamo ma non arriva nessuno; non c’é terraferma, quindi non possiamo arrivare alle case. Le persone ci vedono, qualcuno passa acanto con la canoa, ma nessuno ci chiede qualcosa, nessuno apre la scuola; Moises mi disse che sono quasi tutti protestanti, forse i pochi cattolici sono in città. Una casa viene chiusa, con assi di legno inchiodate a porte e finestre: probabilmente vanno a S.Antonio, ritornando qui quando il livello del fiume si abbassa. Rimaniamo fermi anche la notte, e al mattino alle 7 ripartiamo, passiamo davanti alla comunità di S.Sebastiano II, e qui vediamo tutte le case chiuse. In effetti ieri avevamo incontrato una barca piena di persone di questa comunità, diretti a S.Antonio, che ci avevano avvisato : non avremmo trovato persone in questi giorni. Continuiamo il nostro viaggio e arriviamo nel pomeriggio alle 15 a S.João do Lago Grande. Dato che é tutto allagato, i bambini davanti alle case si stanno divertendo nuotando, tuffandosi; una mamma ( che é anche professoressa della piccola scuola) vigila dalla finestra; sulla piattaforma galleggiante a cui attracchiamo sono appesi due pirarucu (i pesci più pregiati) a seccare. Dalla piattaforma chiacchieriamo un pò con la professoressa alla finestra; ci dice che sta cercando un terreno in Santo Antonio per farsi una casa, anche per il disagio di vivere in un luogo che é allagato alcuni mesi all’anno. Le case sono costruite su palafitte ma, a volte, l’acqua arriva fino al piano di abitazione e oltre. Ieri il marito ha ucciso una grande anaconda che stava mangiando le loro galline e oggi é uscito a pescare, ma quando il fiume é in piena non si pesca molto. Celebriamo la messa alle 19:30 in casa della cacique; è notte, non hanno la corrente elettrica (il generatore si é rotto, un tecnico lo ha preso per aggiustarlo e non restituito) da due mesi; un ragazzo ci viene a prendere in canoa e ci accompagna nella casa della signora. Buio, un buio quasi totale perché ci sono le nuvole e la luna è oscurata; mi impressiona sempre la esperienza del buio vero, quando esci e non vedi nemmeno i tuoi piedi, la tua mano, una esperienza che nelle nostre città italiane non abbiamo più ; qui capisco meglio la simbologia luce/tenebre, e che il buio é veramente situazione di pericolo e di non-conoscenza. La messa é con due anziani ( la cacique e il marito), altri tre adulti e una decina di bambini, alla fioca luce di alcune candele; non hanno preparato la liturgia, noi proponiamo qualche canto e facciamo le letture. Noto in un angolo un altare, con la croce tipica della religione della ‘cruzada’; poi Moises mi disse che questa cacique è in conflitto con altri della comunità perché vorrebbe che tutti entrassero nella ‘cruzada’. Martedì 5 giugno 2023. Arriviamo verso le 10 a Boa União; non riusciamo a posizionare la nostra barca vicino alla casa per non rimanere incagliati, ma ci vengono a prendere in canoa. Stanno costruendo una cappella della comunità, ma ancora non è ultimata, e ci fermiamo in una casa. Ci sono 7 adulti e 7 bambini, famiglie giovani; chiacchieriamo e celebriamo la messa. Non hanno molta formazione ma sono molto accoglienti, con lo spirito allegro, una compagnia piacevole. Speriamo che finiscano la cappella, così avranno un incentivo per riunirsi tutte le settimane per la celebrazione. Alle 16:30 siamo a S.Cristovão II; andiamo nella piccola scuola ( costruita con il contributo dei nostri amici di Reggio); qui, per ora, non si celebra la messa. Al nostro incontro ci sono 8 bambini piccoli e tre giovani donne (2 della religione della ‘cruzada’ e una protestante della chiesa ‘Deus è amor’); leggo un brano del vangelo, facciamo qualche preghiera insieme e la immancabile distribuzione di biscotti. Un incontro ecumenico sereno. Alle 18 siamo a S.João da Liberdade . Da questa parte del fiume la terra sale quindi la comunità non si allaga; facciamo un giro sulla collinetta su cui stanno costruendo nuove case. Celebriamo nella scuola, con circa 20 persone, in maggioranza bambini. Una animatrice sceglie i canti e organizza per le letture. La comunità è vivace, penso che si possa fare un certo lavoro con la catechesi. Mercoledì 6 giugno si riparte per S. Antonio, arrivando intorno alle 13. Per fortuna senza rotture alla nostra nuova barca. Don Gabriele Burani – missionario diocesano in Amazzonia Santo Antonio do Içá, 7 giugno 2023     Leggi le altre lettere24 [...] Leggi di più...
Pellegrinaggio a ROMA
Pellegrinaggio a ROMAIn occasione dell’anno giubilare, i Consigli di Comunità della Pieve propongono un pellegrinaggio a Roma per famiglie e adulti da venerdì 24 a domenica 26 ottobre 2025. Al seguente link trovate le informazioni: Pellegrinaggio a Roma   [...] Leggi di più...
Tempo strano
Testimonianze  in occasione della  Giornata del Malato
Testimonianze in occasione della Giornata del MalatoDal Vangelo secondo Marco (Mc 1,40-45) “Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi guarirmi!». Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, guarisci!». Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: «Guarda di non dir niente a nessuno, ma va’, presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro». Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte.” In occasione della Giornata del Malato, domenica 14 febbraio scorso, alcuni operatori sanitari della nostra Pieve hanno condiviso una riflessione partendo dal Vangelo per arrivare alla testimonianza della quotidianità nello svolgimento della loro professione. Ecco la raccolta di questi preziosi e ricchi contributi!   Elena Pighini “Io non lavoro a stretto contatto con i malati, da diversi anni mi occupo di formazione, e nello specifico della formazione degli infermieri. In questo ambito ho la fortuna di vivere, attraverso gli studenti che seguo nei percorsi di tirocinio, diverse esperienze di vita e di malattia. Ciò che è accaduto nel 2020, con l’arrivo della Pandemia di Covid, ha coinvolto tutti i professionisti della salute e anche chi come me da anni non andava in clinica. All’inizio è stato un trauma, ma anche una importante esperienza che ha contribuito a riaccendere la passione rispetto alla scelta professionale che ho fatto tanti anni fa. Di questo vangelo mi ha colpito la sequenza di azioni con cui Gesù compie il miracolo: Mosso a compassione; Stesa la mano; Lo toccò; Gli disse Mosso a compassione che non è COMMOZIONE: l’atto e l’effetto del commuovere, del commuoversi; Nel linguaggio medico s’intende una grave perturbazione delle funzioni di uno o più organi, dovuta a causa esterna spesso di origine traumatica. Emozione. Agitazione interiore. Invece è più COMPASSIONE: sentimento di pietà e di dolore per i mali altrui. COMPATIRE: soffrire insieme. I sanitari, come siamo identificati oggi, no sono supereroi, come Gesù davanti alla malattia sono mossi a compassione. Non credete che la sofferenza non lasci impassibili chi giorno dopo giorno assiste persone malate. L’empatia, che come formatori insegniamo ai nostri studenti quando iniziano a muovere i primi passi nel percorso che li condurrà ad essere dei professionisti, è uno degli elementi fondamentali della relazione di cura, l’empatia permetterebbe al curante di comprendere i sentimenti e le sofferenze del paziente, incorporandoli nella costruzione del rapporto di cura ma senza esserne sopraffatto. Stese la mano, immagine bellissima, se chiudiamo gli occhi possiamo immaginare come Gesù in una posizione completamente asimmetrica rispetto a quella del lebbroso (Gesù in piedi e il lebbroso in ginocchio) tende il corpo, il braccio e la mano verso quest’uomo. Elimina lo spazio che lo separa dall’uomo sia fisicamente che socialmente. Nello stesso tempo, in unica azione prende le distanze dalla legge di Mosé (citate nella prima lettura) ed elimina le distanze tra lui e il malato. Gesù non lo tiene lontano, ai margini, si avvicina, tende. Allora mi vengono alla mente diverse situazioni cliniche vissute in prima persona nel periodo di marzo dell’anno scorso dove insieme ad alcuni colleghi ci siamo trovati a dover gestire l’arrivo delle ambulanze in pronto soccorso. Le persone per ordine clinico venivano inviate in ospedale, dopo aver passato anche diversi giorni in isolamento in casa, per paura di contagiare i famigliari. A noi era affidato il compito di accoglierle, seppur con tutti i dispositivi di protezione personale, e introdurli in pronto soccorso. A noi era chiesto di farci vicini, per poco tempo, è vero, ma il tempo sufficiente ad accoglierli. Lo toccò, Gesù compie un gesto estremo per quel tempo. Tocca un lebbroso. poteva guarirlo con la voce, a distanza, come ha fatto con altri malati invece lo tocca! Il tatto è uno dei cinque sensi e l’unico bidirezionale, io non posso toccare senza essere toccato. Allora mi torna alla mente il discorso del santo Padre Francesco che ho potuto ascoltare di persona in sala Nervi in occasione dell’udienza rivolta agli Infermieri nel 2018…Incontrando il lebbroso che gli chiede di essere sanato, stende la mano e lo tocca (cfr Mt 8,2-3). Non ci deve sfuggire l’importanza di questo semplice gesto: la legge mosaica proibiva di toccare i lebbrosi e vietava loro di avvicinarsi ai luoghi abitati. Gesù però va al cuore della legge, che trova il suo compendio nell’amore del prossimo, e toccando il lebbroso riduce la distanza da lui, perché non sia più separato dalla comunità degli uomini e percepisca, attraverso un semplice gesto, la vicinanza di Dio stesso. Così, la guarigione che Gesù gli dona non è solo fisica, ma raggiunge il cuore, perché il lebbroso non solo è stato guarito ma si è sentito anche amato. Non dimenticatevi della “medicina delle carezze”: è tanto importante! Una carezza, un sorriso, è pieno di significato per il malato. È semplice il gesto, ma lo porta su, si sente accompagnato, sente vicina la guarigione, si sente persona, non un numero. Non dimenticatelo. Stando con i malati ed esercitando la vostra professione, voi stessi toccate i malati e, più di ogni altro, vi prendete cura del loro corpo. Quando lo fate, ricordate come Gesù toccò il lebbroso: in maniera non distratta, indifferente o infastidita, ma attenta e amorevole, che lo fece sentire rispettato e accudito. Facendo così, il contatto che si stabilisce con i pazienti porta loro come un riverbero della vicinanza di Dio Padre, della sua tenerezza per ognuno dei suoi figli. Proprio la tenerezza: la tenerezza è la “chiave” per capire l’ammalato. Con la durezza non si capisce l’ammalato. La tenerezza è la chiave per capirlo, ed è anche una medicina preziosa per la sua guarigione. E la tenerezza passa dal cuore alle mani, passa attraverso un “toccare” le ferite pieno di rispetto e di amore. DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI MEMBRI DELLA FEDERAZIONE DEI COLLEGI INFERMIERI PROFESSIONALI, ASSISTENTI SANITARI, VIGILATRICI D’INFANZIA (IPASVI) Sabato, 3 marzo 2018Gli disse, Gesù parla al lebbroso per guarirlo e fa il miracolo. Lo guarisce da una esistenza triste e isolata e lo riporta alla vita, alla gioia. Prova anche a dirgli di non fare troppa pubblicità, ma il guarito non riesce a trattenere l’entusiasmo, giustamente pensiamo noi. Non è forse una esperienza entusiasmante? Guarire da una malattia è una gioia infinita!!! Purtroppo però non sempre accade la stessa cosa nei nostri luoghi di cura. A volte la cura non è sufficiente e non si guarisce, a volte le parole che escono dalla nostra bocca sono vorrei guarirti ma non posso, però posso cercare di farti star meglio. Siamo chiamati in questa direzione a prenderci cura (to care), utilizzando quei talenti che Dio ci ha donato per far si che quell’esperienza di malattia, che è soprattutto un’esperienza di vita, possa essere per la persona e la sua famiglia un qualcosa di significativo ed importante anche alla luce del Mistero di Dio. Concludendo, Gesù, il figlio di Dio incarnato, entra nella nostra carne. La malattia è l’esperienza di vita più vicina all’incarnazione perché dice del nostro essere sia umani che frammento di Dio. Forse Dio oggi non fa miracoli, ma sprona l’uomo a mettere a servizio della collettività i propri talenti di cui è portatore per essere il suo braccio miracoloso.”   Enrica Incerti “Don Andrea mi ha chiesto nella settimana in cui celebriamo la giornata della vita e degli ammalati di condividere una breve riflessione nata dall’ascolta della Parola di oggi letta alla luce della mia professione di medico. Nel racconto del Vangelo c’è un uomo ammalato di lebbra che va incontro a Gesù e supplicandolo gli dice “ Se vuoi puoi guarirmi”. E in quell’uomo io ritrovo me stessa con le piaghe della mia debolezza e dei miei limiti e ritrovo gli ammalati che incontro nel mio lavoro quotidiano : deboli, affaticati dalla malattia e dalla sofferenza . E insieme con coraggio e voglia di vita chiediamo a Gesù GUARISCICI. Gli ammalati sono esigenti e chiedono a noi che per professione abbiamo scelto di prenderci cura di loro se per noi sono importanti , se la loro vita per noi è preziosa come per Gesù lo è quella del lebbroso che gli si avvicina. Ci chiedono la stessa compassione , ci chiedono di lasciarci ferire dalla loro sofferenza , di comprometterci e di non abbandonarli alla solitudine del loro dolore. Ci chiedono quel TOCCARE che è la misericordia di Gesù che è capace di creare una relazione che non abbandona l’altro nella sua malattia. Gesù oggi ci mostra come si può incontrare la sofferenza sapendo che questo incontro ha il prezzo di una perdita : perdita di se stessi per sapersi misurare con la diversità che abita l’ ammalato, nella consapevolezza del proprio limite e della propria finitezza… La compassione di Gesù non chiede di essere proclamata ; la guarigione, il bene che opera lo allontanano dalla città ma contemporaneamente il bene compiuto da Gesù nel suo gesto , il suo sapere soffrire con l’altro sono in grado di generare una guarigione , una nuova vita che vengono a gran voce annunciate e che a loro volta richiamano intorno a Gesù tanta gente alla ricerca di quel tocco e di quella compassione…. Questo tempo, questi mesi trascorsi nella pandemia ci hanno rivelato quanto è importante anche se impegnativo vivere sulla via di Gesù che ha compassione , tende la mano e tocca. Questa malattia nuova con la quale tutti ci stiamo confrontando mette in luce le nostre paure , le nostre fragilità, le nostre piaghe che corrono il rischio di allontanarci dagli altri. Questi tempi ci interrogano : siamo capaci di andare verso Gesù e come questo uomo chiedergli in ginocchio : GUARISCIMI SIGNORE DALLA LEBBRA DELLA PAURA E DALLA PAURA DELLA LEBBRA!? Oggi come sempre gli ammalati continuano a chiederci se siamo capaci di quel toccare e di quella compassione . La pandemia ci ha mostrato come sia importante il prendersi cura ,il curare anche quando il guarire non è in nostro potere. L’esperienza di questi mesi mi ha fatto toccare con mano la fatica di abitare un tempo diverso e la necessità di tornare sempre a quella sorgente : Gesù che si commuove e tocca. Ho sperimentato con tante persone e non solo con gli operatori sanitari ( penso spesso ad esempio alle commesse dei supermercati nei mesi di marzo e aprile , ai camionisti che viaggiavano senza sosta e senza aree di sosta per portare a tutti il necessario , a tutti coloro che sono rimasti al loro posto fedeli al proprio dovere…) insieme a tutte queste persone ho condiviso quanto sia difficile tenere nelle proprie mani fragili la vita degli altri e allo stesso tempo quanto la compassione sia un amore che genera amore . Nella mia piccola e imperfetta parte, nel lavoro che svolgo ogni giorno sperimento a mia volta quotidianamente di essere oggetto di cura e guarigione .Sono curata e guarita dagli ammalati che incontro e che mi liberano dalle mie piaghe fatte di impazienza di fretta e a volte di paura e di fastidio, dalle loro famiglie e da tutti coloro che ruotano loro intorno e che mi insegnano la dedizione e la pazienza quotidiane , dalla mia famiglia che sana la mia stanchezza e ricopre con amore le ferite del tempo rubato, dai miei amici che mi sostengono con affetto e con la preghiera e soprattutto come l’uomo lebbroso di questa pagina di Vangelo sono curata dal Signore che sempre si prende cura di noi e che è il solo che davvero ci può guarire.”   Claudia Bagni “Io sono un educatore e un operatore assistenziale e non sono né un infermiere né un medico. Se vogliamo paragonare qualcuno a Dio, direi che loro sono sicuramente le persone più adatte. Lavoro in un centro per disabili e in questi 13 anni di lavoro ho visto tante persone. Da noi ci sono ragazzi che sono nati con una disabilità e altri invece che erano persone dette normali, proprio come tutti noi, ma che nella loro vita lo sono diventate. Una malattia congenita o rara, un incidente, un infarto .. le motivazioni sono tante. Sono queste le situazioni più difficili da affrontare ma sono anche quelle in cui si riesce a vedere l’intervento di Dio con più facilità. Alcune persone vengono da noi per un periodo e grazie alle cure e alle terapie riescono a tornare a fare una vita il più normale possibile. Grazie all’intervento appunto dei medici e degli infermieri, che riescono davvero a indicare la via giusta per guarire. Per noi non è facile e né immediato guarire, come lo è per Dio. A lui basta dire lo voglio. I nostri dottori devono studiare per trovare una cura ma mi sembra un ottimo compromesso per metterci sulla strada di Dio. Quando Don Andrea mi ha chiesto di fare questo intervento io mi sono sentita persa. Io di questi miracoli non ne faccio, non curo nessuno. Anzi. Tante volte i ragazzi ( i nostri disabili, malati, ospiti noi li chiamiamo ragazzi) sono la mia cura. Tutti noi abbiamo dei momenti in cui facciamo fatica ad affrontare la nostra vita.. le relazioni difficili, il voler apparire sempre giusti… tutte queste cose si ridimensionano quando penso ai miei ragazzi. Loro sono più in difficoltà di me ma riescono a essere forza per me, io penso che siano loro la mano di Dio. Loro che nonostante tutti i loro problemi sono sempre pronti a sorriderti, a ringraziarti, a starti vicino. Ed è così che nel vederli non come malati o come ospiti, ma vederli come Marco, Lorena, Francesca, tu capisci che loro hanno bisogno di assistenza perché non riescono a lavarsi da soli, ma in cambio ti danno una sorta di magia che ti cura l’anima, che ti cura da tutte quelle cose che pensi che siano così importanti da non potere vivere senza. Ma non è vero. Quello che conta è proprio la loro parola, o i loro gesti visto che non tutti parlano, che ti curano l’anima. E ogni giorno dico grazie a Dio per avermi fatto incontrare tante persone meravigliose che mi guariscono. In tutti questi anni, la forza che vedo negli occhi dei miei ragazzi mi ha fatto capire che le cose che veramente contano nella vita sono la gioia di stare con gli altri, il rispetto, la forza della pazienza di aspettare i risultati, il coraggio di provare a cambiare la propria situazione o il coraggio ancora più grande di accettarsi diversi da come si vorrebbe essere. Visto che io non sono una sanitaria mi sono chiesta spesso cosa potessi fare per risollevare i miei ragazzi. Poi ho pensato che Gesù inizia dal prendersi cura degli ammalati. Sia nel corpo che nello spirito. E in tutti questi anni ho capito che quello che risolleva lo spirito dei miei ragazzi è un po’ di normalità. La normalità che per noi è scontata ma per loro non lo è. Quindi io sono diventata una professionista nel fare la colazione al bar, nel pranzare fuori, nel fare shopping ai petali. Per noi questi sono riti veramente unici. Sembra quasi magico dire andiamo al bar a prendere un caffè. E lo sembra perché in quel momento anche i miei ragazzi fanno quello che fanno tutti gli altri. Perché anche se vivono in struttura, non sono malati così gravi da avere sempre bisogno di un medico, per fortuna. Loro hanno bisogno di normalità. Questa normalità fatta di visite dei parenti e di uscite quest’anno ci è stata tolta. In alcuni periodi è stata dura, anche perché i ragazzi non sempre si rendono conto che non si può uscire per una pandemia, non a tutti lo puoi spiegare. Ma il bello di essere comunità è proprio il sostenerci anche in questi momenti, siamo sempre pronti a ridere e scherzare per sdrammatizzare ogni situazione, anche le più difficili. Il bello di essere comunità è proprio questo, c’è sempre qualcuno che riesce a farti venire il sorriso. La comunità della nostra struttura poi è una comunità allargata. Nel senso che ne fanno parte di solito anche le famiglie dei nostri ragazzi. Le famiglie sono le più colpite dalla disabilità in quanto si devono ridefinire. E ognuna lo fa in modo diverso. Secondo le proprie possibilità. Vorrei però raccontarvi della comunità di Fabrizio. Lui ha sempre avuto in tutti questi 8 anni una famiglia e degli amici molto presenti. Lo venivano a trovare i parenti stretti tutti i giorni, gli amici una volta ogni 15 giorni. Beh questi sono amici non solo con la maiuscola, ma con tutte le lettere maiuscole. La comunità di Fabrizio è diventata un po’ anche la nostra, degli altri operatori e degli altri ragazzi. Loro includono tutti, ridono e scherzano come se ci conoscessimo da una vita. Questo è un sostegno per Fabrizio, per la sua famiglia ma anche per noi operatori. In una comunità non si sa mai chi è a guarire e chi è a curare perché i ruoli si scambiano di continuo. Io parlando di comunità vorrei ringraziare anche voi di Fellegara. A volte ci incontriamo nelle mie uscite e ne ricordo due in particolare, proprio di quest’ultimo anno di covid. Una volta appena ci avete visto ci avete lasciato il tavolino migliore del bar perché in tutti gli altri c’era il sole, la seconda volta abbiamo scambiato due battute scherzose. Ecco questo per me è creare il regno di Dio. Vuol dire avere persone che fanno gesti normali ma che in quel momento per te sono importanti. Persone che ti VEDONO. Ti vedono davvero, vedono che sei con una persona disabile ma non hanno paura, o imbarazzo più che paura, e ti trattano con normalità. Questa è la vera magia che solo Dio può fare. Una lezione di normalità io l’ho ricevuta da Giulia, una ragazza giovane che viene da noi ogni tanto per un sollievo alla famiglia, lei dice che viene per farsi i fatti suoi visto che a 30 anni dipende dai genitori per tutto. Bhe Giulia un giorno al bar mentre le stavo mettendo uno dei nostri bellissimi tovaglioli blu ( il mio intento era quello di non sprecarla, i ragazzi devono essere sempre puliti se no cosa pensa la gente quando li vede??? ) Giulia mi ha detto: Claudia è meglio una macchia sulla maglia che il tovagliolo, noi dobbiamo confonderci non distinguerci ancora di più. Io vi giuro che i tovaglioli blu nelle uscite non li metto più. Quindi, quando San Paolo dice di diventare imitatori di Cristo, io penso che per imitarlo e creare il suo regno, tante volte basti la normalità di un saluto, di una parola o di un sorriso.. che anche con la mascherina quando sorridi con il cuore si vede.”   Sara Belvedere “Buongiorno a tutti, mi chiamo Sara, sono un’infermiera e lavoro nel reparto di Pneumologia dell’ospedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia. Mi è stato chiesto dal don di condividere con voi una piccola riflessione su questo vangelo, dato che questa settimana è stata particolarmente dedicata ai malati e alle persone fragili. Questo per rendere testimonianza della mia esperienza lavorativa. Assistere e prendersi cura delle persone che vivono nella sofferenza credo che sia qualcosa di delicato, perchè, proprio perchè essere umani, in condizioni di malattia non è solo il corpo a risentirne, ma c’è tutta una sofferenza dell’anima, di vissuto di dolore che è inevitabile non considerare. E’ difficile dare voce ad emozioni e sentimenti che si provano lavorando con persone che vivono nella sofferenza. In particolare dallo scorso anno, lavorando in un reparto tutt’ora molto coinvolto nell’emergenza covid 19, è molto piu’ impegnativo, sia a livello fisico che emotivo, perchè da un giorno a un altro la sensazione è stata quella di essere catapultati in un concentrato di sofferenza, di dolore, di solitudine, di paura, tutta insieme ed improvvisamente. Credo sia importante rivolgere le giuste parole e gesti verso chi soffre, di tutte le malattie, ma anche avere il tempo di metabolizzare ciò che si vive, anche se indirettamente come operatori sanitari, è importante. Quest’emergenza non ci ha dato tanto il tempo di capire all’inizio ciò che stava accadendo , è stato devastante, perchè tantissime persone, giovani e anziani, erano li, si affidavano a noi, che giorno dopo giorno abbiamo imparato sempre di piu’ a ripondere alle loro richieste di aiuto, nonostante inizialmente impreparati. Leggendo questo passo del vangelo penso che l’incontro tra Gesu’ e il lebbroso sia molto toccante e assolutamente attuale. Mi sono soffermata a riflettere su diverse parole che mi hanno colpita. Nel Vangelo si dice che Gesu’ ha COMPASSIONE del lebbroso, ma non in senso negativo, io credo significhi che ha riconosciuto con il cuore la sofferenza del malato, ha accolto il suo dolore. Questa situazione si può trasferire nella nostra quotidianità, perchè ogni giorno è possibile vivere queste situazioni, ma ciò che è importante è saper aprire il cuore, avere la forza di rapportarsi con il dolore e di stare accanto a chi soffre, per tanti motivi. Sarebbe troppo facile stare in disparte, per paura di essere troppo coinvolti, ma siamo umani e la sofferenza fa parte della vita, anche se a volte è una croce enorme da portare e come si fa a fare finta di niente davanti a chi implora aiuto? Io credo che prima di aiutare bisogna imparare a fare il sottile passo che lo precede, ovvero ciò che Gesu’ ha fatto, riconoscere chi soffre, non ignorare. Purtroppo l’indifferenza è tanta, ma quando qualcuno è in grado di accogliere il nostro grido di aiuto, in maniera gratuita, è una cosa meravigliosa. Ci fa sentire meno soli in situazioni di sofferenza e la croce diventa piu’ leggera da portare. Un’altra parola che mi ha portato a riflettere è stata quella del “TOCCO”, perchè Gesu’ tocca il lebbroso, in quell’epoca considerato dalla società una persona assolutamente da evitare, un escluso da tutto e da tutti. Tuttavia Gesu’ non ha paura e lo accoglie, dedicandogli del tempo. Mi viene da pensare a quanto bisogno avremmo di abbracciare, di riprenderci un po’ i gesti di affetto, da rivolgere anche a chi vive la malattia nel quotidiano. Grazie al mio lavoro, però, ho davvero avuto modo di capire quanto sia significativo il comunicare con empatia con i malati, ho imparato che, anche se il tempo sembra sempre essere poco e ci sono tantissime cose da fare in una giornata lavorativa e sei stanco, una parola di conforto e un sorriso possono fare la differenza. Ho capito quanto sia fondamentale preservare la dignità dei malati, a porsi con delicatezza davanti a chi in poco tempo non può e non riesce, o ci riesce con molta fatica, a compiere gesti che prima facevano parte del quotidiano, come parlare, camminare, muovere le dita, mangiare e bere in autonomia, perchè, per esempio, attaccato a un ventilatore che lo aiuta a respirare. Spesso la cosa più importante di tutte è dedicare del tempo, perchè lancia un messaggio di positività, ovvero sono qui accanto a te e ti ascolto, in maniera sincera e vera. Credo che dedicare tempo ai malati sia purtroppo una delle battaglie più dure che viviamo al lavoro in questo periodo, perchè si lavora in condizioni diverse, vestiti dalla testa ai piedi, si è piu’ stanchi e i ritmi sono un po’ cambiati. Tuttavia questo non ci impedisce di dedicare tempo a tutti i tipi di malati, perchè una semplice attività di cura può diventare piu’ significativa se associata al giusto modo di comunicare, se ci si pone in ascolto del malato. Bisogna ammettere che risulta anche molto gratificante sentirsi dire grazie, anche se si è fatta una cosa piccola, in realtà può essere di grande aiuto e un gesto molto significativo. Il fatto che Gesu’ tenda la mano verso il lebbroso è un gesto meraviglioso. Penso abbia un significato profondo, perchè credo che rappresenti la comunione tra Dio e l’uomo, quest’ultimo con le sue fragilità, con la sua condizione di malattia, che provoca ferite non solo al corpo ma nel cuore e nella mente, che può portare alla solitudine, all’emarginazione, al dolore, porta a un cambiamento della propria vita. Gesu’, però, può rimarginare le ferite, può purificarci, aiutandoci a sorreggere il peso della sofferenza. Penso che la buona notizia sia che questa. Tutti noi possiamo impegnarci a essere un po’ piu’ simili a Gesu’, possiamo tendere la mano a qualcuno, questo ci rende uomini, ovvero la carità. Questo lo si può fare aiutando chi vive la malattia a non convivere nella solitudine per esempio, a non emarginarsi come faceva il lebbroso. Vuol dire stare accanto in qualche modo, tendere la mano a chi sta vivendo gli ultimi giorni della propria vita, a chi è lontano dai propri cari, come sta succedendo in questo periodo, a chi ha mille progetti di vita che ha dovuto mettere da parte perchè malato, ci sono tanti modi di stare accanto. Tuttavia, mi rendo conto che si può anche imparare da chi è in una condizione di fragilità. Mi fa riflettere la pazienza, il coraggio, la voglia di mettercela tutta per guarire, di sorridere e di scherzare, nonostante tutto, che mi capita di vedere nei pazienti, senza negare che ognuno comunque ha le sue debolezze. La guarigione non riguarda solo gli ammalati, ma anche chi riesce a tendere loro la mano, perchè riempie il cuore di emozioni profonde e ci apre a una comunicazione autentica con il prossimo. Ringrazio per questa bella opportunità di condivisione. Grazie per l’ascolto.”   Davide Germini “Nella prima lettura che la liturgia oggi ci propone, si nota in modo chiaro come ai tempi di Mosè un malato di lebbra venisse considerato “impuro” nonché peccatore per tutta la durata della sua malattia. Questo mi fa riflettere innanzitutto se, al di là della lebbra, qualcosa è cambiato nel corso della storia. Purtroppo, ancora oggi, certe patologie e certi ammalati sono, come si dice, “stigmatizzati”, cioè sono visti come “diversi”, come qualcosa di lontano da noi e da cui stare alla larga. Mi vengono in mente alcune persone che ho conosciuto nella mia esperienza lavorativa, soprattutto pazienti che afferiscono ai servizi di salute mentale o con disabilità di diverso tipo. Spesso c’è chi prova quasi un senso di vergogna ad avere a che fare con loro, chi vive questo incontro con difficoltà oppure stranezza. Credo che però la maggior parte di queste reazioni siano dettate dalla non-conoscenza e dalla mancanza di consapevolezza rispetto a quella situazione/patologia. Una volta che si entra in relazione con queste persone, infatti, si possono toccare con mano delle qualità, che magari in un primo momento ci sembrano “nascoste” dalla patologia o dalla condizione ma, se si cerca di lasciarsi trasportare da questo incontro, si esce sicuramente arricchiti. Anche il lebbroso che compare nel Vangelo è considerato “impuro” e si conosce bene la loro condizione dell’epoca. Isolamento, solitudine, diversità, fragilità, percepire una chiusura dell’altro che può portare ad un senso di frustrazione. Frustrazione che già è presente per la malattia stessa e che non può far altro che essere accresciuta esponenzialmente e portare ancora di più ad isolarsi e a non aver fiducia in chi incontriamo. Avere la lebbra era come se ti cambiasse la prospettiva e ti facesse vedere le cose diversamente, partendo dal tuo malessere. Attualmente, da alcuni mesi, lavoro in un reparto di isolamento per persone positive al Covid-19 con sintomi lievi. In questo contesto lavorativo devo ammettere che la solitudine che viene dettata dall’isolamento e dalla quarantena è spesso tangibile. Si sente il peso del non potere vedere i familiari, del non poter fare due chiacchiere. Sembra quasi come se si rimanesse fermi, in pausa, da soli mentre fuori dalla camera il mondo va avanti. Gesù, come spesso accade, riesce a darci una visione differente della situazione. E lo fa con dei gesti in apparenza semplici, ma pieni di grande significato: “Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse”. L’avere compassione: la capacità di partecipare del dolore altrui, facendolo proprio e condividendolo. Potremmo quasi affermare che Gesù è l’essenza stessa della compassione intesa in questa ottica. Tante volte nel corso dei Vangeli leggiamo episodi di compassione e solidarietà verso qualcuno più sfortunato o in condizione di disagio. Questo atteggiamento del “patire con” apre la parte più profonda di noi stessi e non solo la nostra mente, ci dà maggiore consapevolezza di chi ci circonda, ci fa riconoscere l’altro non come la sua malattia ma come persona, con delle necessità ma anche con punti di forza. Ci porta dritti al suo essere. E’ un sancire un rapporto, una relazione di cura-che cura. E’ un voler puntare alla qualità della relazione. Il tendere la mano: voler farsi prossimo. Cercare di instaurare una relazione, cercare di trasmettere qualcosa all’altro. E’ segno di voler esserci, che tenta di aprire le porte alla fiducia e all’accoglienza, quella autentica, che va oltre. Il tocco: segno forte di presenza, di vicinanza, di affetto. Ma è un segno forte anche per noi che “tocchiamo”, ci rende consapevoli che siamo lì per quella persona che abbiamo di fronte, che l’accogliamo così com’è, senza vincoli, pregiudizi oppure pretese. Il gesto del toccare un lebbroso che compie Gesù va contro i canoni dell’epoca, va oltre la malattia e dritto alla persona. Dire: quante volte capita, proprio a lavoro, di non saper trovare le parole giuste per comunicare notizie o cambiamenti che sappiamo difficili? Quante volte mi accorgo che il peso delle parole che dico, anche quelle che mi sembrano più banali e insignificanti, possono essere vissute da chi le ascolta come “parole di grazia”, di sollievo oppure pesanti, inaspettate, che ti fanno sbattere la testa, che non le vuoi sentire? Aggiungo anche la dimensione importante e fondamentale dell’ascolto, da collocare prima di tutte queste. Senza un ascolto vero, attivo, partecipato, le fasi successive sarebbero ridotte o addirittura senza significato. E Gesù ascolta, prima di parlare. Ascolta il grido e le preghiere di questo lebbroso che chissà da quanto tempo gli correva dietro. E’ questo il primissimo passo dell’accoglienza. E mi chiedo, nel mio essere infermiere, sono in grado di ascoltare come si deve? Di ascoltare davvero, a fondo? Al termine della seconda lettura però, san Paolo ci esorta: “Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo!” Ecco, credo che diventi fondamentale “imitare Cristo” in questi gesti che vanno oltre. Ma con l’attenzione che non diventino una routine fine a se stessa ma cerchino, in ogni contesto, di rispettare e valorizzare chi si ha di fronte. A partire da quando la situazione è sotto controllo, quando si fa fatica a trovare le parole fino a quando non c’è più niente da fare. A volte accade che al termine di una giornata lavorativa ripenso un po’ a come sia andata. Mi viene da chiedermi spesso se è stata una buona giornata. Se avessi potuto usare parole diverse per dire certe cose, dedicare più tempo a qualche persona che ne avrebbe avuto forse più bisogno. Chiedo al Signore che possa darmi la capacità di voler ricercare sempre, ogni giorno, sul campo come nella vita, una relazione vera, autentica, personalizzata e focalizzata sulla persona e sui suoi bisogni. E chiedo ancora al Signore di non mancare di umanità, nel mio lavoro ma anche nella mia quotidianità, ma di riuscire ad accogliere per davvero chi mi sta di fronte, di dedicare il tempo necessario al dialogo senza che la frenesia delle cose da fare vada a penalizzare queste relazioni preziose, ad avere la capacità di mettermi nei panni dell’altro, crescendo ogni giorno con pazienza, passione e professionalità.”   Paola Lusetti “Buongiorno, sono Paola e sono un medico di famiglia. Mi è stato chiesto di condividere con voi alcune riflessioni,ricollegandole alle letture di oggi, su cio’che abbiamo vissuto nel nostro lavoro,durante questa pandemia.All’inizio di tutto, circa 1 anno fa’,noi medici di base, avevamo forse un po’ sotto valutato cio’ che stava per succedere.Pensavamo fosse un virus, nuovo si e forse un po’ piu’ cattivo del solito, ma che avrebbe fatto piu’ o meno il decorso che fanno ogni anno, i virus influenzali. Invece, ci siamo accorti ben presto, che stava succedendo qualcosa di molto diverso. Nessuno di noi, avrebbe potuto immaginare, che saremmo capitati dentro ad un simile scenario. Qualcosa di invisibile e potente, come solo i virus sanno essere, stava cambiando la vita del mondo. La mattina, arrivando in ambulatorio, ci chiedevamo: Ma ce la faremo a contenerlo ? Quello che stiamo facendo servira’? Abbiamo visto i nostri colleghi ospedalieri e gli infermieri stremati dai turni e dalla tensione. Abbiamo visto le famiglie con i bambini piccoli,chiuse in casa in spazi ristretti. Abbiamo visto gli anziani, quelli che andavamo a visitare a casa una volta la settimana, morire da soli in un letto di ospedale. Ci sembrava, anche se è difficile ammetterlo, di non farcela… E’ molto difficile dominare qualcosa che non vedi, sembrava di essere davanti a qualcosa di molto piu’ grande di noi. E cosi’ in effetti è stato.. Ci è venuto addosso un senso di impotenza, a cui non eravamo abituati. Una sana impotenza… Noi medici, dopo questa epidemia, dobbiamo dire la verita’ ai nostri pazienti. Non siamo noi i salvatori del mondo, dei supereroi, come qualcuno spesso crede, che salvano l’umanità dal dolore e dalla morte sempre e comunque. Questo ci lusinga, ma luccica di falsità.La medicina, la scienza, la tecnologia, non guariscono sempre e non si può allungare la vita oltre misura. Se vogliamo essere veramente sinceri, dobbiamo essere come Giovanni il Battista e dire: Non sono io che ti salvo, ma devi cercare Lui.Il lebbroso del Vangelo supplica Gesù, perchè Lui lo possa guarire. Noi possiamo solo, come il buon samaritano, ungere con olio e balsamo le ferite e i dolori dell’uomo e dell’umanità. Prima di questa pandemia, tante, troppe persone, si rivolgevano a noi per avere una soluzione pronta, sicura, definitiva alla sofferenza. Spinti dai progressi della scienza, si è cominciato a pensare che si poteva risolvere quasi tutto, a parte qualche malattia veramente grave.. La pandemia, ci ha riportato davanti agli occhi molto chiaramente, l’impotenza dell’uomo davanti al male. Questa consapevolezza ci fa bene. Ci pone nella condizione di figli, che hanno bisogno di un Padre. Al lebbroso, solo, impuro, cacciato fuori dall’accampamento, non resta piu’ niente, che non sia supplicare Gesù a gran voce che passa di lì. Molte persone, in questo difficile periodo, sono state poste “fuori dall’accampamento”. Isolate in casa propria in quarantena o da sole in ospedale. È lì, fuori dall’accampamento, che la compassione del Signore ci può raggiungere e salvare. Chiediamo allora, che questa luce dello Spirito, che ci è stata donata in questo periodo di grande sofferenza, continui a guidarci e ad illuminare gli eventi della nostra vita e del mondo intero, perchè possiamo riconoscere il Signore come nostro unico Padre e Salvatore.   Martina Fiaccadori “Ciao a tutti Io sono Martina, nella vita sono una infermiera e oggi mi è stato chiesto di raccontarvi un po’ la mia esperienza lavorativa alla luce del Vangelo di oggi. Sono infermiera da 12 anni e principalmente ho accompagnato in questi anni pazienti in Cure Palliative quindi affetti da patologie in fase molto avanzata di malattia. Nel raccontarvi di me mi piace partire proprio dalla immagine che viene descritta oggi dal Vangelo: da una parte il lebbroso che si inginocchia e che tocca terra, dall’altra quella di Gesù che si abbassa, si china verso di lui e gli tende la mano. Mi colpisce questa immagine perché mi ricorda quanto io veda nelle realtà: la malattia purtroppo è una situazione che mette in ginocchio, mostra tutte le fragilità umane nelle persone che si trovano a fare i conti con i propri limiti ma anche nelle persone che si trovano a prendersi cura degli ammalati. Quante volte i malati mi hanno raccontato del momento della diagnosi utilizzando termini come “è scoppiata una bomba”, “è stato un fulmine a ciel sereno” oppure evidenziano quanto la vita, le priorità, i bisogni cambino quando compare una malattia. Allo stesso modo anche le famiglie che si trovano a fare i conti con un malato in casa parlano di vere e proprie rivoluzioni che compromettono la vita e i ruoli di tutti coloro che si trovano a stare accanto al malato. Cosi come ai tempi di Gesù i lebbrosi erano temuti e tenuti a distanza, così oggi l’esperienza di malattia rischia di diventare fonte di solitudine ed abbandono. C’è in primis la solitudine del malato che fatica a condividere le sue emozioni, le sue paure e i suoi dubbi ma c’è anche la fatica di molte famiglie che vivono con mano la cronicità e raccontano storie di abbandono, solitudine e fragilità. Mi colpisce come nel rapportarci con la malattia ciò che emerge è tutta la nostra umanità: se noi seguissimo il nostro istinto umano, infatti, davanti a qualcosa di brutto, difficile e spaventoso scapperemmo a gambe levate! Quando ero in hospice e parlavamo di comunicazione con il malato utilizzavamo una immagine secondo me molto bella che era questa: in alcuni momenti quando comunichiamo con il malato dobbiamo avere la capacità di “stare sulla sedia che scotta”. Quando le parole si fanno difficili, quando la morte diventa argomento di discussione, quando la rabbia, la paura e la sofferenza richiedono di essere ascoltate la tentazione è quella di ricorrere a facili rassicurazioni, frasi fatte e cambi di argomento che poco accolgono il dolore di chi abbiamo davanti. Nel Vangelo di oggi Gesù fa un gesto rivoluzionario già 2000 anni fa e rivoluzionario anche oggi: Gesù di avvicina e tocca il malato! Avvicinando il lebbroso Gesù tocca un impuro, va oltre la regola di un tempo che era quella di tenersi a distanza da questi malati. Papa Francesco nel 2015 ha detto una frase molto bella: “non si può fare il bene senza avvicinarsi” che per me come infermiera si traduce nel “non puoi fare bene il tuo lavoro senza starci nella relazione con il paziente, senza vedere davvero la persona che ti sta davanti”. Gesù avrebbe potuto dirgli da lontano “si guarito!” e invece no, si è avvicinato e lo ha toccato. Gesù si avvicina ma soprattutto si lascia avvicinare, lo tocca e gli parla. Gesù vede il lebbroso, lo vede col cuore, entra a contatto con la sofferenza di quell’uomo, esprime la sua compassione e si lascia coinvolgere dal suo grido e dalla sua richiesta di aiuto. Guardando e toccando il lebbroso Gesù restituisce quell’uomo alla sua umanità, gli riconosce dignità innanzitutto come persona. Lo avvicina andando oltre alla sua malattia e alla sua sofferenza. Il suo toccare il lebbroso è segno del suo coinvolgimento. Gesù mette in opera lo sguardo di bene che Dio ha su ciascuno di noi e che va al di là delle nostre fragilità umane. Proprio lì, nel punto più estremo della fatica umana Gesù entra e lo fa sconvolgendo la vita del lebbroso. Lo guarda, lo ama e lo guarisce. Quando leggevo queste parole nel Vangelo mi sono ricordata che c’è un grande rischio che corriamo noi operatori sanitari ovvero quello di perdere di vista la persona che stiamo curando: quando la nostra preoccupazione diventa che cosa bisogna curare invece di chi stiamo curando guardiamo la malattia e non più la persona e il nostro agire diventa meno fecondo. Per concludere nel preparare questa testimonianza mi è stato chiesto quale è la buona notizia che leggo in questo Vangelo e come questo si colleghi con la mia esperienza lavorativa. La buona notizia che io vedo nelle parole di Gesù che si avvicina al lebbroso si racchiude nella parola SPERANZA. In un modo o nell’altro, in hospice o sul territorio, ho sempre lavorato con malati in fase avanzata di malattia, inseriti in un percorso di cure palliative e quindi paradossalmente l’immaginario di questa fase di malattia porta ad immaginare una completa assenza di speranza. Quale speranza è possibile se non posso più guarire? A fronte di una diagnosi drammaticamente infausta quale scenario se non la disperazione? E invece quello che ho sperimentato in questi anni è che la speranza, come uno spiraglio di luce che si insinua in una fessura, trova spazio anche nei momenti più bui e difficili. In hospice soprattutto ho visto come la speranza si mantenga valorizzando i piccoli passi, mantenendo aperte le finestre quando le porte si chiudono una dopo l’altra. Cosi in questi anni ho visto spegnersi la speranza della guarigione e accendersi la speranza della libertà del dolore, la speranza di poter vivere abbastanza da conoscere il proprio nipotino o vedere sposare la propria figlia, la speranza di poter tornare a casa e morire nel proprio letto invece che in un ospedale e tanti altri piccoli semi che nascono anche quando tutto sembra perduto. Per concludere volevo lasciarvi una testimonianza di una paziente che ancora oggi porto nel cuore e che secondo me rappresenta davvero la Speranza: ferma al letto, consapevole dell’avanzamento della propria malattia ella parlava della propria morte aspettandola non come LA fine ma come UN fine verso qualcosa di più grande dopo.”   Annalisa Talami “Il Vangelo di questa domenica in poche semplici frasi, lineari, descrive una scena che in realtà al tempo di Gesù era tutt’altro che scontata. Il protagonista è un lebbroso, proprio colui che attendendosi alla legge dei Giudei doveva essere segregato agli estremi della comunità, escluso, in quanto impuro, castigato da Dio con la lebbra come conseguenza dei propri peccati. Una malattia che non soltanto deturpa il corpo e la salute, ma che comporta una esclusione completa dalla convivenza con gli altri. E’ un personaggio anonimo che con tutto il coraggio e la forza rimasti fa il gesto disperato di rivolgersi a Gesù, con la speranza che almeno lui non lo cacci orripilato dal suo corpo, devastato dalle piaghe della malattia. Forse più che dalla fede, il lebbroso si lascia guidare dall’audacia: supera la paura e cerca aiuto, consapevole di non potercela più fare da solo. E a dire il vero, il lebbroso si rivolge a Gesù domandandogli non di concedergli la guarigione dalla malattia, bensì è un uomo alla ricerca della purificazione del proprio corpo. Ha perso tutto della sua vita e con disperazione cerca almeno un riavvicinamento a Dio. “Se lo vuoi”: Gesù immediatamente raccoglie la supplica dell’uomo che sta inginocchiato davanti a lui. Innanzitutto si ferma a guardarlo e ad ascoltarlo, senza cacciarlo, senza disgustarlo e instaura quindi con lui una relazione. Sgorga in Gesù il senso della compassione: si lascia coinvolgere e condivide la sofferenza assieme al lebbroso. Condivide il patimento, lo porta assieme a lui, rendendogli il carico meno pesante. Gesù non si limita a rispondere a parole: si muove anche fisicamente verso il lebbroso, si avvicina e tende la mano verso di lui. Come Gesù è stato toccato nell’animo dal lebbroso, così in modo reciproco cerca un contatto con quell’uomo, che ormai da tanto tempo soffriva la solitudine dell’abbandono. È un gesto che si scontra con le regole, che avrebbe reso Gesù a sua volta impuro, contagiato. Questa carezza, che viene prima delle parole, sembra voler scardinare la Legge per cui per potersi avvicinare a Dio, per poter aver accesso al tempio, bisognava essere purificati. Qui, il lebbroso si avvicina a Dio e viene purificato. Riprendendo la richiesta condizionale del lebbroso, Gesù con piena convinzione risponde che sì, lo vuole! Gli assicura senza titubanze che gli importa di lui, dei suoi bisogni e gli ridona una vita. Subito dopo, però, veniamo di nuovo riportati nel contesto di quei tempi e Gesù con tono che appare serio e minaccioso si raccomanda di non raccontare l’accaduto, ma di recarsi al tempio: era infatti compito dei sacerdoti ratificare le norme da applicare nei confronti di un lebbroso e a dichiararne anche l’avvenuta guarigione. Forse la serietà che appare trasparire dalle parole di Gesù nasconde rabbia e delusione per la situazione di schiavitù ed emarginazione per chi soffriva nel corpo per quella malattia, portando i malati a dubitare dell’amore di Dio. Quell’uomo, però, pieno di tutta la vita appena restituita, non si trattiene dal raccontare con felicità la Parola di novità che ha ricevuto. Disobbedisce a Gesù, che si ritrova quasi paradossalmente nella stessa condizione del lebbroso, al suo posto, costretto cioè a non poter più entrare in città, escluso, certo non per ragioni mediche, ma per non essere sommerso dalle richieste di aiuto corporale. Questo, però, non riesce a fermare il circolo di vita che è iniziato. Tutti lo cercano, vanno verso di lui, creando relazioni che amplificano la forza dell’amore di Dio. L’incontro con le persone che hanno una malattia è una circostanza, purtroppo, non insolita: in famiglia, tra i conoscenti, ogni tanto qualcuno deve affrontare una situazione difficile. Per alcuni questo incontro è quotidiano, parte della propria vita lavorativa, e le persone coinvolte sono sconosciuti, anonimi, proprio come il lebbroso del Vangelo di oggi. Persone che da un giorno all’altro si sentono dare un nome al loro male, che fa paura, che getta nella disperazione. E al male fisico, si associa subito un’altra immensa sofferenza, che il più delle volte è più ingestibile e profonda, conseguente alla sensazione di perdere tutto quello che negli anni si è costruito. E se è tanto impegnativo ricevere una diagnosi, non è da meno trovarsi dall’altra parte. Mi hanno insegnato che non si può arrivare impreparati a questo momento di comunicazione della malattia, da cui ha inevitabilmente inizio una relazione. Bisogna stare lì, anche quando avresti voglia di scappare lontano. Ed è forse anche per questo che il lavoro del medico è, per così dire, quasi un privilegio: si incontrano persone sconosciute, che poi hanno un nome, e che poi sono anche mamme, papà, fratelli, con le loro vite da raccontare.. e da ascoltare. Quando in ospedale entra un nuovo paziente, nel reparto dove lavoro, tra le cose quasi scontate è che dovrà rimanere ricoverato per tante e lunghe settimane, spesso mesi. In questo momento di restrizioni sociali, poi, la degenza si trasforma quasi in una reclusione: oltre ai medici e agli infermieri, i pazienti non possono vedere nessuno, perché non si può, ma soprattutto perché, come ben presto si rendono conto, stare insieme alle persone esterne rappresenta per loro così indifesi un pericolo. Allora ci ritroviamo a fare un giro visite imprevedibile: si entra nella stanza, ma non si può sapere se si riuscirà a svignarsela presto. Per questo è difficile anche stare dall’altra parte, o meglio, è difficile se si vuole stare dall’altra parte. Si deve imparare piano piano a stare lì, fermarsi, guardare la persona e mettersi accanto a lei, che racconta della sua malattia fisica e che giorno dopo giorno inizia anche ad affidarti il suo patimento più intimo e profondo. Per questo, penso, dentro al nostro reparto i pazienti hanno quasi tutti dopo qualche giorno già un soprannome: la Robbi, Enri, la Sabri, Willi. Ammetto che quando capita di dover entrare nella stanza di qualcuno che chiede del medico, spero spesso di non entrare da sola, soprattutto quando i pazienti sono giovani. Chissà adesso cosa mi chiede, penso. Sarò capace di rispondere? A cosa potrò mai essergli utile? Ecco, adesso mi inizia a fare tutte quelle domande scomode, che hanno risposte difficilissime, che forse non gli dirò mai per non farlo soffrire. Poi ci si accorge che l’unica cosa di cui forse aveva bisogno era di qualcuno a cui chiedere una sciocchezza, quasi come scusa per fare qualche chiacchiera insieme. E l’unica cosa che sta chiedendo è quindi un orecchio e un cuore pronti ad accogliere i suoi pensieri. Alla fine della visita, in modo automatico e sistematico mi viene da rispondere: ma figurati, anzi, grazie a te! Grazie per avermi permesso di entrare nella tua preoccupazione, nella tua felicità per un bel traguardo, nella tua fatica nel gestire una complicazione in più. E uscendo dalla stanza, un altro automatismo che mi viene è quello di porgere una carezza, cercando di far trasparire dagli occhi un sorriso nascosto dalla mascherina. Spesso si è in difficoltà a parlare di guarigione, di risoluzione e si parla più che altro di controllare la malattia. E con quella carezza sul volto si prova a far capire che sicuramente si sta facendo di tutto per curare il male, ma che si è lì anche per lenire la sofferenza dell’animo, offrendo qualche medicina relazionale per rendere più leggera la pesantezza della malattia. “E se hai bisogno per qualsiasi cosa, sai dove trovarci”. Si chiude la porta, come si chiuderebbe la porta della stanza della mamma e del papà o di tuo fratello in casa propria. Gesù la fa facile comunque.. sì, lo voglio! Sii purificato, sii sanato! Se fosse così semplice. Gesù, perché ci affidi la sofferenza di questa persona? Perché sta andando tutto male? Perché sembra inutile quello che stiamo facendo? Noi non siamo capaci di miracoli che guariscono. Però, forse, quello che ci viene chiesto e di cui possiamo essere capaci è spenderci in gesti di amore, mettercela tutta per restituire un po’ di umanità alla persona che si sente abbandonata e privata del valore della sua esistenza. Alcune volte va a finire male nel nostro reparto, come anche nella vita di tutti i giorni. Pure in modo inaspettato. Allora ancor di più vale la pena non pianificare miracoli, quanto soprattutto piccoli gesti quotidiani per contribuire e amplificare il circolo di amore che Gesù con la sua vita ha cercato di innescare. Nella lettera per la Quaresima che papa Francesco ha indirizzato alla chiesa qualche anno fa si leggevano queste parole, con cui concludo: “Vorrei che anche nei nostri rapporti quotidiani, davanti a ogni fratello che ci chiede un aiuto, noi pensassimo che lì c’è un appello della divina Provvidenza: ogni gesto di coinvolgimento nella situazione dell’altro è un’occasione per prendere parte alla Provvidenza di Dio verso i suoi figli. E se Egli oggi si serve di me per aiutare un fratello, come domani non provvederà anche alle mie necessità?”   Silvia Sghedoni “Silvia, 36 anni, medico al servizio di Riabilitazione presso il Santa Maria. Credo che i Don abbiano avuto una buonissima idea nel chiedere ai laici di dare il proprio contributo come testimoni , perché non corriamo il rischio di andare in chiesta “ a fare teorie” , ma perché ci impegniamo perché la vita e la fede restino unite. Insieme a mio marito Stefano, apparteniamo alla fraternità dell’Ordine Francescano secolare ( OFS) , e per noi francescani secolari, l’incontro di San Francesco con il lebbroso ha un valore grandissimo, perché sappiamo che è quello l’Incontro che genera in lui la conversione, sappiamo che è un segno determinante nel suo cammino. Ringrazio quindi i Don che durante questa settimana mi hanno affidato l’impegno di preparare un mio contributo, perché per onorarlo al meglio ho avuto la possibilità di pregare, nella preghiera familiare, questo vangelo di Marco in cui l’incontro con il lebbroso si realizza con Gesù ( in fin dei conti, sulle orme di Frannceso, è poi Gesù che noi vogliamo seguire) Cosa ti colpisce di questo vangelo? Quello che mi colpisce di questo Vangelo, è la impossibilità di potere tenere per se la gioia che il Signore ci ha procurato nella vita, anche quando è Gesù stesso a chiederlo, non è possibile obbedirgli. Quando si riconosce l’opera di Dio nella propria vita , c’è un irresistibile bisogno di raccontarlo a tutti. Quale buona notizia ci leggi? Io leggo almeno 3 buone notizie in questo Vangelo ( e certamente ce ne sono altre che mi sono sfuggite) La prima buona notizia è che Gesù non scappa. Di fronte ad una condizione di estremo disordine, bruttezza, scompostezza in cui ci possiamo trovare ( quel che è rappresentato dal Lebbroso) Gesù non si tira indietro. Rischia la vita per incontrarci proprio nella condizione in cui siamo ( anche se fragili, malati) , Teniamo presente che la lebbra ( a cui per fortuna noi non siamo più abituati) è una malattia estremamente contagiosa, quindi Gesù nell’infrangere la norma igienica che imponeva un giusto distanziamento, sa di mettere a rischio la propria vita. La seconda buona notizia è che anche quando ci troviamo in condizioni di assoluta disperazione , disagio ( come il lebbroso) abbiamo la possibilità di fare , di cuore, delle preghiere molto molto potenti. Preghiere brevi, ma che dicono in modo sincero quello che ci sta a cuore. La terza notizia buona è che Gesù non resiste di fronte a tanta sincerità. Una preghiera semplice, fatta di verità e con il cuore, in totate fiducia e affidamento al Signore, è potentissima. Di fronte a tanta fiducia, il Signore agisce, opera nella vita di chi chiede con preghiera di cuore. Quali esperienze ti ricorda? Hai un racconto da condividere? Per me oggi, incontrare la lebbra significa incontrare qualcosa che, come la lebbra , mi fa paura, mi farebbe scappare, mi farebbe evitare l’incontro, Questo qualcosa per me, ad oggi, è la morte. La morte è per me, come la lebbra. Vi racconto allora un piccolo episodio in cui, la morte ( che io temo, come la lebbra), l’ho incontrata. E ho avuto la assoluta certezza di essere stata, tramite la Provvidenza, assolutamente accompagnata da Signore. Per me che faccio il medico della riabilitazione, è una assoluta rarità accompagnare qualcuno alla morte, eppure in questo anno mi è successo. Mi è accaduto di accompagnare un paziente speciale alla morte, è morto durante il mio turno di guardia pomeridiana. Ho avuto la Grazia di potere accompagnare lui all’incontro con Sorella Morte. La specialità di questo momento è derivata dal fatto che di solito, quando si fa il turno pomeridiano, ci sono sempre molti ammalti da visitare, il telefono che tengo in tasca suona spesso. Ecco, quel pomeriggio abbiamo avuto al Grazia del tempo: il telefono non è suonato per tutto il pomeriggio, e io ho potuto vegliare con la moglie il marito morente, siamo state insieme sulla soglia del Paradiso. Non è frequente per un medico ( che è proprio il medico di turno) avere il tempo per potere stare lungamente con gli ammalati. La seconda cosa che mi è successa è che, per trovare lo spazio in cui stare nella stanza con la moglie ed il marito, mi ero infilata come potevo in un angolino, e solo quando i segni della morte erano ormai evidenti, mi sono accorta che la posizione in cui sostavo da lungo tempo per assisterli era IN GINOCCHIO. Quasi che , incosciamente, avessi riconosciuto la Sacralità del momento che ci trovavamo a celebrare. Cosa ritrovi della tua esperienza lavorativa? Quali gesti di Gesù sono attuali nel tuo lavoro? I gesti di Gesù che come sanitari rendiamo concreti e a cui ci ispiriamo sono i 4 gesti elencati nel vangelo: “Ebbe compassione” la vicinanza ai pazienti, la loro comprensione; “tese la mano “ la vicinanza verso i pazienti non è solo un fatto di testa o spirituale , è una vicinanza fisica . Il lebbroso era in ginocchio a supplicare, e Gesù tendendogli la mano lo invita e rialzarsi da terra, la mano di Gesù solleva, ridona dignità. “lo toccò” il tocco, il modo in cui si esegue la visita, il tocco gentile, la vicinanza fisica che è necessaria “ gli disse” , la parola ,il dialogo, lo spazio necessario alla comunicazione, all’ascolto, alle spiegazioni. Concludo facendo insieme a voi una preghiera per tutti gli ammalati, per tutti i medici, il personale sanitario perché in tutte le condizioni, anche le più difficili, disperate, disgraziate abbiano la certezza di non essere mai soli.   Preghiera per la XXIX Giornata Mondiale del Malato «Uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8) La relazione interpersonale di fiducia quale fondamento della cura olistica del malato 11 febbraio 2021 Padre santo, noi siamo tuoi figli e tutti fratelli. Conosciamo il tuo amore per ciascuno di noi e per tutta l’umanità. Aiutaci a rimanere nella tua luce per crescere nell’amore vicendevole, e a farci prossimi di chi soffre nel corpo e nello spirito. Gesù figlio amato, vero uomo e vero Dio, Tu sei il nostro unico Maestro. Insegnaci a camminare nella speranza. Donaci anche nella malattia di imparare da Te ad accogliere le fragilità della vita. Concedi pace alle nostre paure e conforto alle nostre sofferenze. Spirito consolatore, i tuoi frutti sono pace, mitezza e benevolenza. Dona sollievo all’umanità afflitta dalla pandemia e da ogni malattia. Cura con il Tuo amore le relazioni ferite, donaci il perdono reciproco, converti i nostri cuori affinché sappiamo prenderci cura gli uni degli altri. Maria, testimone della speranza presso la croce, prega per noi.   Scarica il documento completo [...] Leggi di più...
Pensieri, Consigli e Ricordi
Pensieri, Consigli e RicordiI Ragazzi di 2° superiore presentano: Pensieri, Consigli e Ricordi, da una quarantena appena conclusa La quarantena è stata difficile per tutti, ciascuno a modo suo ha cercato di conservare i legami con amici e conoscenti. Alcuni educatori, insieme a molti ragazzi della pieve, hanno deciso di cominciare a scrivere un giornalino che raccontasse questo tempo strano. Scegliendo di che argomenti parlare (le diverse rubriche) e trovandosi in gruppi più ristretti del solito hanno cominciato a lavorare. E’ sembrato così, a tutti i partecipanti, di continuare un po’ l’attività degli incontri in parrocchia, oltre che di portare avanti il tema dell’anno: il servizio. Speriamo perciò che questo giornalino possa essere utile a chi lo leggerà per sentirsi parte di una comunità che non abbandona, ma  c’è e ci fa. Scarica il giornalino [...] Leggi di più...
Con Domenica 31 maggio 2020 riprendono le celebrazioni
Con Domenica 31 maggio 2020 riprendono le celebrazionisecondo i seguenti orari in tutte e sette le comunità: Orario   8.30   9.00 10.00 10.00 10.00 10.00 11.15 11.15 11.15 19.00 Luogo Chiesa grande S. Teresa Chiozza Fellegara Iano Pratissolo Chiesa grande S. Ruffino S. Teresa Chiesa grande Capienza 126 persone 146 persone   79 persone   71 persone   40 persone   83 persone 126 persone   49 persone 146 persone 126 persone   Non c’è bisogno di prenotarsi.  Ci impegneremo ad osservare con attenzione tutte le indicazioni necessarie perché la salute di tutti (soprattutto quella delle persone più fragili) sia preservata e perché tutti possano partecipare con serenità. A messa sarà obbligatorio portare la mascherina e dovremo osservare una distanza di almeno un metro; se una persona non sta bene o ha il sospetto di essere stato in contatto senza protezione con persone positive è bene che stia a casa. Sarà fondamentale la puntualità, anzi meglio venire in anticipo. La prefestiva del sabato delle 19.00 sarà in Chiesa grande a partire dal 30 maggio Sono riprese le Messe anche a Ca’ de Caroli alle 8.30 e alla Chiesa di Ventoso alle 11.15   Chiesa dei Cappuccini La Messa feriale sarà alle 8.00 dal lunedì al venerdì Al sabato la Messa festiva sarà alle 18.30 Alla domenica (già a partire dal 24 maggio) la Messe saranno alle: 8.00, 11.00 e 18.30 È necessaria la prenotazione solo per la Messa festiva è possibile farla accedendo al sito:www.iovadoamessa.it o telefonando al Call Center: 347780 6746 o direttamente al Convento 0522 857534 Sono riprese le messe feriali tutti i giorni alle 8.30 in chiesa grande (al lunedì alle 10.30) tutti i giorni alle 19.00 in S. Giuseppe Desideriamo che questo inizio sia un’occasione di riscoperta dell’opportunità della Messa feriale e che la bellissima Chiesa di San Giuseppe sia vissuta come cuore di preghiera per tutta la Pieve. Durante le Messe potremo ricordare nella preghiera le sorelle e i fratelli che ci hanno lasciato, soprattutto coloro che non abbiamo potuto accompagnare come avremmo voluto. Agli ammalati o agli anziani che non riprenderanno subito a partecipare alla messa è possibile portare la comunione attraverso i ministri dell’Eucarestia. Al lunedì e al sabato dalle 9.00 alle 11.30 siamo disponibili per le confessioni in Chiesa grande. Il tempo che abbiamo vissuto forse ha fatto emergere tante cose di ciascuno di noi che possono essere messe davanti al Signore anche attraverso il sacramento della Riconciliazione. Ovviamente ci si può accordare anche direttamente suonando in canonica o telefonando ai sacerdoti. Da sabato 6 giugno riprenderà l’adorazione in Chiesa grande dalle 9.00 alle 11.00 in S. Teresa dalle 17.00 alle 19.00 La preghiera quotidiana e anche quella in famiglia sono state tra le belle scoperte di questo tempo che proveremo a custodire. Le segreterie riapriranno a partire del 1 giugno secondo i seguenti orari: Chiesa grande (0522 857511):  lunedì e sabato dalle 9.30 alle 11.30; martedì e giovedì dalle 17.30 alle 19.00 S. Teresa (0522 856596): lunedì, mercoledì e venerdì dalle 17.00 alle 19.00 [...] Leggi di più...
Riprendiamo a CELEBRARE INSIEME
Riprendiamo a CELEBRARE INSIEMESecondo il protocollo d’intesa tra il Governo e la Conferenza Episcopale Italiana, firmato in data 7 maggio e secondo le disposizioni della nostra diocesi, sarà possibile riprendere le celebrazioni eucaristiche a partire da lunedì 18 maggio. Siamo consapevoli dalla sofferenza che molti hanno provato nel non poter radunarci per celebrare  insieme e nell’aver dovuto rinunciare a nutrirsi dell’Eucarestia in questi due mesi e mezzo. Abbiamo però sperimentato la presenza e la fedeltà del Signore in tanti altri modi e abbiamo imparato a cercarlo attraverso altre vie, che andranno custodite; siamo contenti però di poter riprendere a vivere insieme questo momento privilegiato di incontro con il Signore, che è l’eucarestia. Siamo coscienti che ci attende un tempo di “rodaggio” e del fatto che non potremo da subito celebrare come prima, ma questo non ci impedisce di cercare attraverso la cura della liturgia quel clima di preghiera, di festa e di vera comunione che desideriamo. È nostro desiderio riprendere a celebrare contemporaneamente il giorno del Signore in tutte le comunità; non sappiamo ancora se saremo pronti per domenica 24 maggio, ci stiamo però organizzando in modo da vivere con serenità e cura la ripresa delle Messe festive. Per ora iniziamo con le Messe feriali: in chiesa grande sempre alle 8.30 a parte il lunedì (10.30) e alla sera ad experimentum cominciamo a celebrare in San Giuseppe alle 19.00 tutti i giorni da lunedì a venerdì. Desideriamo che questo inizio sia un’occasione di riscoperta dell’opportunità della Messa feriale e che la bellissima Chiesa di San Giuseppe sia vissuta come cuore di preghiera per tutta la Pieve. Ci impegneremo ad osservare con attenzione tutte le indicazioni necessarie perché la salute di tutti (soprattutto quella delle persone più fragili) sia preservata e perché tutti possano partecipare con serenità. A messa sarà obbligatorio portare la mascherina e dovremo osservare una distanza di almeno un metro. Sarà fondamentale la puntualità (anzi meglio in anticipo), perché nel presentarsi a Messa iniziata si rischia di creare un po’ di disagio… magari è la volta buona che ci riusciamo a celebrare insieme fin dall’inizio. Ci saranno comunque delle persone dedicate all’accoglienza in modo da facilitare le cose. Durante le Messe potremo ricordare nella preghiera le sorelle e i fratelli che sono morti in questi mesi, soprattutto coloro che non abbiamo potuto accompagnare come avremmo voluto. In questo tempo un’attenzione particolare andrà rivolta agli ammalati o agli anziani che non riprenderanno subito a partecipare alla messa. Attraverso i ministri dell’Eucarestia, con le dovute cautele, si potrà portare la comunione. In questo tempo “intermedio” continueremo ad accompagnare le comunità con i commenti quotidiani alle letture del giorno e i sussidi domenicali per la preghiera nelle case. La preghiera quotidiana e anche quella in famiglia sono state tra le belle scoperte di questo tempo che proviamo a custodire. Appena possibile vi diremo quando riprenderanno le Messe domenicali, dando alcun indicazioni più precise, non sarà comunque necessaria nessuna prenotazione.   ESTATE Per quanto riguarda le esperienze estive date le circostanze attuali non possiamo ancora presentare una proposta chiara. Quello che al momento possiamo dire è che: Non ci sarà il Grest estivo a giugno nella forma degli anni scorsi, Non faremo i campeggi di 5^ elementare, 1^ e 2^ media (le famiglie che hanno già fatto l’iscrizione verranno contattate telefonicamente per la restituzione della caparra). Non escludiamo invece la possibilità di fare i campeggi di 3^ media e 1^ superiore, dandoci un po’ di tempo per capire come evolverà la situazione. Stiamo considerando la possibilità di poter proporre un’esperienza sul territorio rivolta ai bambini delle elementari e ai ragazzi delle medie. È nostro desiderio, infatti, essere vicini alle famiglie, dare la possibilità ai bambini e ai ragazzi di cominciare a incontrarsi per vivere una proposta educativa e dare ai giovani l’opportunità di svolgere un servizio; a tale proposito nelle domeniche 17, 24 e 31 maggio proporremo un corso per animatori. [...] Leggi di più...
Voci e pensieri per condividere questi giorni
Voci e pensieri per condividere questi giorniLUCIANO MANICARDI, priore di Bose: Fare i conti con la fragilità che ci costituisce. Hai scritto un testo sulla fragilità dove già nelle prime pagine si viene invitati a diffidare dalla retorica o dall’esaltazione della fragilità. Eppure molta tradizione cristiana si è poggiata a lungo su questo… Mai come oggi, in questi tempi di pandemia, possiamo cogliere la dimensione onnipervasiva della fragilità. Semplicemente, essa è costitutiva della condizione umana e abita ogni realizzazione umana, abita la natura come la cultura, riguarda la salute come le condizioni economiche, il lavoro e le imprese, le relazioni interpersonali, sociali e politiche, riguarda la natura e la cultura. Tutto può spezzarsi, a seguito di un lungo processo di erosione, oppure improvvisamente, come l’epidemia di coronavirus ci mostra. Al tempo stesso, non mi pare sensato scrivere elogi della fragilità proprio perché essa è una realtà di fatto, è già lì, mentre è la fortezza, la fortitudo, una virtù che va costruita giorno dopo giorno. E va costruita proprio partendo dall’assunzione della fragilità. La fragilità ci riguarda, ne siamo impastati. Eppure oggi, anche a livello personale, è difficile fare i conti con essa. Noi tendiamo a rimuoverla e a dimenticarla anzitutto per motivi culturali, in quanto la fragilità contraddice l’immagine di forza, potenza, successo, “infrangibilità” che deve contraddistinguere una vita umanamente riuscita secondi i parametri mondani correnti. Ma anche psicologicamente la fragilità è temuta e spesso rimossa perché il toccarla, il prenderne atto, produce una sofferenza troppo grande e costituisce una ferita narcisistica. Il prendere atto della concreta fragilità che ci abita ci costringe a rinunciare ai sogni di onnipotenza in cui spesso prolunghiamo il nostro narcisismo infantile. E appunto, una delle lezioni che l’epidemia ci sta insegnando è quella della nostra non-onnipotenza.Ci sta insegnando la lezione dell’imponderabile, dell’imprevedibile e dunque ci invita all’umiltà della conoscenza. Una conoscenza adeguata deve mettere in conto l’imprevedibile. Per dirla con Edgar Morin, maestro del pensiero della complessità ampiamente ripreso nella Laudato si’ di papa Francesco, “la conoscenza è una navigazione in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezze”. Tu scrivi che la fragilità resta il luogo di giudizio della nostra pratica di umanità.  E’ un appello, una domanda, che mette in gioco la cura e la  responsabilità. Tu sostieni l’urgenza di un’“etica della fragilità”. Che dovrebbe strutturarsi in che modo? L’etica della fragilità si radica nell’empatia. In quel movimento di immedesimazione e rispecchiamento che ci porta a sentire come nostra la sofferenza o la fragilità dell’altro. Gli atteggiamenti richiesti da un’etica della fragilità sono poi almeno questi due: da un lato, il riconoscimento della fragilità che ci abita che ci consente di accogliere anche la fragilità che abita negli altri;dall’altro, la cura delle persone ferite dalle fratture che la fragilità provoca. Questo il potenziale umanizzante insito nella fragilità. Fai un esempio.. Di fronte allo straniero, al migrante che, fuggendo da storie di sofferenza e disumanità, di povertà e di guerra, giunge nelle nostre terre ignorandone cultura, lingua, usi, ed essendo diverso per costumi e religione, o si entra in un dinamismo virtuoso di empatia per cui “sento” che la sua stranierità, con le fragilità connesse, è anche la mia e abita in me, e allora non sono spinto a odiare in lui ciò che vedo in me, o altrimenti il rischio è che la fragilità dell’altro non dia origine a nessuna risposta etica ma a risposte sadiche, violente, disumane. Lo sguardo è decisivo. Il rischio dell’uomo di sempre è di togliere il volto, di cancellare l’unicità. Se questo accade, e lo abbiamo visto spesso negli ultimi tempi, a prevalere è il disprezzo, l’odio. Uno sguardo umano ed etico sulla fragilità coglie la precarietà e anche la preziosità del volto segnato dal male, del corpo ferito, della storia spezzata e se ne sente interpellato e chiamato in causa. Chi guarda umanamente la fragilità scopre che la fragilità lo riguarda. L’odio, invece, non vede il volto, ma una massa indistinta, così che riesce a odiare gli immigrati, i musulmani, gli ebrei, e così via: non esiste più l’individualità dell’altro, non esiste più il suo volto, vera icona del trascendente nel mondo. Il volto, infatti, è luogo essenziale di cristallizzazione dell’identità. Il volto è epifania dell’umanità dell’uomo, della sua unicità irriducibile, e questa preziosità del volto è simultanea alla sua vulnerabilità. La pelle del volto è quella che resta più nuda, più spoglia. E gli occhi, specchio dell’anima, ne sono la parte ancora più indifesa, più fragile, che invita, per la sua stessa fragilità ed esposizione alle ingiurie esterne, ad averne rispetto e cura. Insieme però dici che della  fragilità si può fare buon uso. Ciò che conferisce alla fragilità non sono i suoi limiti ma il posto che i suoi limiti lasciano all’uomo per amare. E’ lo spazio della libertà. Che non è automatico o spontaneo. Come educarsi a questo? Un’espressione di Cicerone rappresenta bene un uso sapiente della fragilità. Nel suo trattato sull’amicizia, Cicerone scrive: “Poiché le cose umane sono fragili e caduche dobbiamo sempre cercare qualcuno da amare e da cui essere amati. Tolti infatti l’affetto e la benevolenza, ogni gioia è sottratta alla vita”. La fragilità è lo spazio, l’ambito al cui interno avviene la costruzione della nostra umanità. Così come la fragilità delle cose umane è stata l’ambito all’interno del quale Gesù ha costruito la sua umanità e la sua pratica dell’amore, giungendo perfino ad amare il nemico. Questo spazio è quello della libertà e anche della responsabilità. Educarsi a questo è educarsi a quell’etica della cura che comporta l’assunzione della compassione come criterio di giudizio sulla realtà: nella compassione vi è infatti il giudizio di gravità (vedo la situazione di debolezza, di sofferenza grave di una persona e non ne resto indifferente), vi è il giudizio di non colpa (l’altro è vittima, non colpevole), vi è il giudizio eudaimonistico (l’altro e il suo bene è un fine decisivo per la mia realizzazione umana). Nella fragilità si cerca di custodire le cose essenziali. Anche per la comunità cristiana è lo stesso. Cosa è bene – per i cristiani – custodire gelosamente in questo tempo? Nell’ultimo capitolo parli di “grazia della fragilità”. Cosa intendi? Qual è stato lo sguardo di Gesù sulla fragilità? Dicendo “grazia” intendo che il riconoscimento umile e realistico della concreta situazione di fragilità propria e altrui, conduce a fare di questa debolezza un elemento spiritualmente ricchissimo, potentemente umanizzante. La fragilità diviene creatrice di legami, agisce come ponte che istituisce rapporti tra diversi. Per quanto indesiderabile, la fragilità può divenire capace di mobilitare una società e di creare rapporti di solidarietà e dar vita a istituzioni che si prendono cura dei più bisognosi. Anche nella crisi del coronavirus abbiamo visto fiorire il sentimento di solidarietà che si esprime sia in manifestazioni gratuite, sia in generosità e dedizione e aiuto verso chi è più bisognoso. Ovviamente, il problema non è la fragilità in sé, ma ciò che se ne fa, il rapporto che istituiamo con essa, e allora, se riconosciuta e accettata, diventa fondamento di un agire etico. La fragilità è lo spazio in cui lo spirito umano può manifestarsi come resiliente, creativo, geniale. Certo, occorre uno sguardo che, invece di perdersi in complottismi e dietrologie, cioè cercando, come sempre nelle soluzioni di tipo moralistico, un colpevole, veda le vittime e si prenda cura di esse. Come ha fatto Gesù. Il cui sguardo non si è mai posato anzitutto sul peccato o sulla colpa dell’uomo, ma sulla sua sofferenza. E da lì è nata la sua azione di cura e di responsabilità per l’umano.   PAPA FRANCESCO:  Messaggio Urbi et Orbi – Pasqua 2020 Cari fratelli e sorelle, buona Pasqua! Oggi riecheggia in tutto il mondo l’annuncio della Chiesa: “Gesù Cristo è risorto!” – “È veramente risorto!”. Come una fiamma nuova questa Buona Notizia si è accesa nella notte: la notte di un mondo già alle prese con sfide epocali ed ora oppresso dalla pandemia, che mette a dura prova la nostra grande famiglia umana. In questa notte è risuonata la voce della Chiesa: «Cristo, mia speranza, è risorto!» (Sequenza pasquale). È un altro “contagio”, che si trasmette da cuore a cuore – perché ogni cuore umano attende questa Buona Notizia. È il contagio della speranza: «Cristo, mia speranza, è risorto!». Non si tratta di una formula magica, che faccia svanire i problemi. No, la risurrezione di Cristo non è questo. È invece la vittoria dell’amore sulla radice del male, una vittoria che non “scavalca” la sofferenza e la morte, ma le attraversa aprendo una strada nell’abisso, trasformando il male in bene: marchio esclusivo del potere di Dio. Il Risorto è il Crocifisso, non un altro. Nel suo corpo glorioso porta indelebili le piaghe: ferite diventate feritoie di speranza. A Lui volgiamo il nostro sguardo perché sani le ferite dell’umanità afflitta. Il mio pensiero quest’oggi va soprattutto a quanti sono stati colpiti direttamente dal coronavirus: ai malati, a coloro che sono morti e ai familiari che piangono per la scomparsa dei loro cari, ai quali a volte non sono riusciti a dare neanche l’estremo saluto. Il Signore della vita accolga con sé nel suo regno i defunti e doni conforto e speranza a chi è ancora nella prova, specialmente agli anziani e alle persone sole. Non faccia mancare la sua consolazione e gli aiuti necessari a chi si trova in condizioni di particolare vulnerabilità, come chi lavora nelle case di cura, o vive nelle caserme e nelle carceri. Per molti è una Pasqua di solitudine, vissuta tra i lutti e i tanti disagi che la pandemia sta provocando, dalle sofferenze fisiche ai problemi economici. Questo morbo non ci ha privato solo degli affetti, ma anche della possibilità di attingere di persona alla consolazione che sgorga dai Sacramenti, specialmente dell’Eucaristia e della Riconciliazione. In molti Paesi non è stato possibile accostarsi ad essi, ma il Signore non ci ha lasciati soli! Rimanendo uniti nella preghiera, siamo certi che Egli ha posto su di noi la sua mano (cfr Sal 138,5), ripetendoci con forza: non temere, «sono risorto e sono sempre con te» (cfr Messale Romano)! Gesù, nostra Pasqua, dia forza e speranza ai medici e agli infermieri, che ovunque offrono una testimonianza di cura e amore al prossimo fino allo stremo delle forze e non di rado al sacrificio della propria salute. A loro, come pure a chi lavora assiduamente per garantire i servizi essenziali necessari alla convivenza civile, alle forze dell’ordine e ai militari che in molti Paesi hanno contribuito ad alleviare le difficoltà e le sofferenze della popolazione, va il nostro pensiero affettuoso con la nostra gratitudine. In queste settimane, la vita di milioni di persone è cambiata all’improvviso. Per molti, rimanere a casa è stata un’occasione per riflettere, per fermare i frenetici ritmi della vita, per stare con i propri cari e godere della loro compagnia. Per tanti però è anche un tempo di preoccupazione per l’avvenire che si presenta incerto, per il lavoro che si rischia di perdere e per le altre conseguenze che l’attuale crisi porta con sé. Incoraggio quanti hanno responsabilità politiche ad adoperarsi attivamente in favore del bene comune dei cittadini, fornendo i mezzi e gli strumenti necessari per consentire a tutti di condurre una vita dignitosa e favorire, quando le circostanze lo permetteranno, la ripresa delle consuete attività quotidiane. Non è questo il tempo dell’indifferenza, perché tutto il mondo sta soffrendo e deve ritrovarsi unito nell’affrontare la pandemia. Gesù risorto doni speranza a tutti i poveri, a quanti vivono nelle periferie, ai profughi e ai senza tetto. Non siano lasciati soli questi fratelli e sorelle più deboli, che popolano le città e le periferie di ogni parte del mondo. Non facciamo loro mancare i beni di prima necessità, più difficili da reperire ora che molte attività sono chiuse, come pure le medicine e, soprattutto, la possibilità di adeguata assistenza sanitaria. In considerazione delle circostanze, si allentino pure le sanzioni internazionali che inibiscono la possibilità dei Paesi che ne sono destinatari di fornire adeguato sostegno ai propri cittadini e si mettano in condizione tutti gli Stati, di fare fronte alle maggiori necessità del momento, riducendo, se non addirittura condonando, il debito che grava sui bilanci di quelli più poveri. Non è questo il tempo degli egoismi, perché la sfida che stiamo affrontando ci accomuna tutti e non fa differenza di persone. Tra le tante aree del mondo colpite dal coronavirus, rivolgo uno speciale pensiero all’Europa. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, questo continente è potuto risorgere grazie a un concreto spirito di solidarietà che gli ha consentito di superare le rivalità del passato. È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore, ma che tutti si riconoscano parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda. Oggi l’Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero. Non si perda l’occasione di dare ulteriore prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative. L’alternativa è solo l’egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato, con il rischio di mettere a dura prova la convivenza pacifica e lo sviluppo delle prossime generazioni. Non è questo il tempo delle divisioni. Cristo nostra pace illumini quanti hanno responsabilità nei conflitti, perché abbiano il coraggio di aderire all’appello per un cessate il fuoco globale e immediato in tutti gli angoli del mondo. Non è questo il tempo in cui continuare a fabbricare e trafficare armi, spendendo ingenti capitali che dovrebbero essere usati per curare le persone e salvare vite. Sia invece il tempo in cui porre finalmente termine alla lunga guerra che ha insanguinato l’amata Siria, al conflitto in Yemen e alle tensioni in Iraq, come pure in Libano. Sia questo il tempo in cui Israeliani e Palestinesi riprendano il dialogo, per trovare una soluzione stabile e duratura che permetta ad entrambi di vivere in pace. Cessino le sofferenze della popolazione che vive nelle regioni orientali dell’Ucraina. Si ponga fine agli attacchi terroristici perpetrati contro tante persone innocenti in diversi Paesi dell’Africa. Non è questo il tempo della dimenticanza. La crisi che stiamo affrontando non ci faccia dimenticare tante altre emergenze che portano con sé i patimenti di molte persone. Il Signore della vita si mostri vicino alle popolazioni in Asia e in Africa che stanno attraversando gravi crisi umanitarie, come nella Regione di Cabo Delgado, nel nord del Mozambico. Riscaldi il cuore delle tante persone rifugiate e sfollate, a causa di guerre, siccità e carestia. Doni protezione ai tanti migranti e rifugiati, molti dei quali sono bambini, che vivono in condizioni insopportabili, specialmente in Libia e al confine tra Grecia e Turchia. E non voglio dimenticare l’isola di Lesbo. Permetta in Venezuela di giungere a soluzioni concrete e immediate, volte a consentire l’aiuto internazionale alla popolazione che soffre a causa della grave congiuntura politica, socio-economica e sanitaria. Cari fratelli e sorelle, indifferenza, egoismo, divisione, dimenticanza non sono davvero le parole che vogliamo sentire in questo tempo. Vogliamo bandirle da ogni tempo! Esse sembrano prevalere quando in noi vincono la paura e la morte, cioè quando non lasciamo vincere il Signore Gesù nel nostro cuore e nella nostra vita. Egli, che ha già sconfitto la morte aprendoci la strada dell’eterna salvezza, disperda le tenebre della nostra povera umanità e ci introduca nel suo giorno glorioso che non conosce tramonto. Con queste riflessioni, vorrei augurare a tutti voi una buona Pasqua.   PAPA FRANCESCO:  Non spegniamo la fiammella smorta e lasciamo che riaccenda la speranza Dal vangelo secondo Marco (4,35-41) In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?». «Venuta la sera» (Mc 4,35). Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo ritrovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme. È facile ritrovarci in questo racconto. Quello che risulta difficile è capire l’atteggiamento di Gesù. Mentre i discepoli sono naturalmente allarmati e disperati, Egli sta a poppa, proprio nella parte della barca che per prima va a fondo. E che cosa fa? Nonostante il trambusto, dorme sereno, fiducioso nel Padre – è l’unica volta in cui nel Vangelo vediamo Gesù che dorme –. Quando poi viene svegliato, dopo aver calmato il vento e le acque, si rivolge ai discepoli in tono di rimprovero: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40). Cerchiamo di comprendere. In che cosa consiste la mancanza di fede dei discepoli, che si contrappone alla fiducia di Gesù? Essi non avevano smesso di credere in Lui, infatti lo invocano. Ma vediamo come lo invocano: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (v. 38). Non t’importa: pensano che Gesù si disinteressi di loro, che non si curi di loro. Tra di noi, nelle nostre famiglie, una delle cose che fa più male è quando ci sentiamo dire: “Non t’importa di me?”. È una frase che ferisce e scatena tempeste nel cuore. Avrà scosso anche Gesù. Perché a nessuno più che a Lui importa di noi. Infatti, una volta invocato, salva i suoi discepoli sfiduciati. La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità. Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, la tua Parola stasera ci colpisce e ci riguarda, tutti. In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: “Svegliati Signore!”. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te. In questa Quaresima risuona il tuo appello urgente: “Convertitevi”, «ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni. È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Davanti alla sofferenza, dove si misura il vero sviluppo dei nostri popoli, scopriamo e sperimentiamo la preghiera sacerdotale di Gesù: «che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti. La preghiera e il servizio silenzioso: sono le nostre armi vincenti. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai. Il Signore ci interpella e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invita a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a queste ore in cui tutto sembra naufragare. Il Signore si risveglia per risvegliare e ravvivare la nostra fede pasquale. Abbiamo un’ancora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore. In mezzo all’isolamento nel quale stiamo patendo la mancanza degli affetti e degli incontri, sperimentando la mancanza di tante cose, ascoltiamo ancora una volta l’annuncio che ci salva: è risorto e vive accanto a noi. Il Signore ci interpella dalla sua croce a ritrovare la vita che ci attende, a guardare verso coloro che ci reclamano, a rafforzare, riconoscere e incentivare la grazia che ci abita. Non spegniamo la fiammella smorta (cfr Is 42,3), che mai si ammala, e lasciamo che riaccenda la speranza. Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, e di solidarietà. Nella sua croce siamo stati salvati per accogliere la speranza e lasciare che sia essa a rafforzare e sostenere tutte le misure e le strade possibili che ci possono aiutare a custodirci e custodire. Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Cari fratelli e sorelle, da questo luogo, che racconta la fede rocciosa di Pietro, stasera vorrei affidarvi tutti al Signore, per l’intercessione della Madonna, salute del suo popolo, stella del mare in tempesta. Da questo colonnato che abbraccia Roma e il mondo scenda su di voi, come un abbraccio consolante, la benedizione di Dio. Signore, benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori. Ci chiedi di non avere paura. Ma la nostra fede è debole e siamo timorosi. Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta. Ripeti ancora: «Voi non abbiate paura» (Mt 28,5). E noi, insieme a Pietro, “gettiamo in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi” (cfr 1 Pt 5,7).   MAURO MAGATTI:  Vita e morte si dan battaglia. politica, scienza e religione: ora di scelte Gli storici dicono che le grandi epidemie – insieme alle guerre e alle carestie – hanno la forza di scuotere intere civiltà provocandone la rigenerazione morale e spirituale. La rottura della quotidianità, l’esposizione alla morte, la sospensione delle regole sono i fattori che concorrono a questo risultato. In effetti, sappiamo che la parola di origine medica “crisi” indica il momento in cui un certo modo di vivere – rivelandosi improvvisamente insostenibile – va sostituito con un altro. Ecco perché crisi significa “separare” “decidere”. Sempre in medicina, il momento “critico” ? quello in cui si deve scegliere tra la vita – come riapertura del futuro – e la morte – come ripiegamento sugli elementi distruttivi che stanno all’origine della crisi. Noi oggi ci troviamo esattamente qui: sospesi tra la vita e la morte. Tra un passato a cui non si può tornare, un presente terribile e un futuro che non sappiamo immaginare. E che potrà essere molto peggiore o molto migliore. Per andare nella seconda direzione occorre discernere nella situazione che stiamo vivendo gli aspetti di speranza da quelli mortiferi. In quella battaglia a cui assistiamo ogni giorno in cui vita e morte si confrontano a viso aperto. La politica è più che mai in campo. Semplicemente perché nessuno può affrontare il virus da solo. Per sventare il pericolo abbiamo bisogno delle istituzioni collettive, peraltro messe a durissima prova. Coesione, capacità di decisione e di azione, disponibilità di risorse. A tutti i livelli la politica è potentemente chiamata in causa. Ma deve scegliere: prendere la strada dell’autoritarismo che cancella la libertà o scommettere sulla responsabilità di tutti in un quadro coordinato e coeso? Lasciarsi andare all’egoismo politico (esemplificato dall’assurdo e maldissimulato tentativo di Trump di “comprare”, in esclusiva americana, l’eventuale vaccino al quale sta lavorando una grande azienda tedesca) o farsi parte attiva di una battaglia comune nel nome di quella “Dichiarazione di interdipendenza” che Ulrich Beck qualche anno fa indicava come evoluzione necessaria della politica del XXI secolo? La prima strada porta alla guerra: scenario che oggi ancor più di ieri non si può escludere, ma si deve evitare con tutte le forze. La seconda via porta a una nuova stagione dove la cooperazione diventa leva e condizione per risolvere i grandi problemi globali che ci accomunano. La scienza (e le sue applicazioni tecniche) si trova anch’essa a dovere scegliere tra la vita e la morte. È sulla base delle indicazioni di alcuni scienziati che il governo inglese ha annunciato di non volere controllare l’epidemia puntando a quella che gli studiosi chiamano “immunità di gregge”. In nome di uno pseudo “realismo” scientista, si disegna così uno scenario apocalittico destinato a causare centinaia di migliaia di morti. Sacrificare i fragili per non pagare costi troppo alti. Non pensiamo che una democrazia come quella britannica possa permettersi una tale soluzione. Ma è certo che le dichiarazioni dei giorni scorsi fanno capire che la scienza può essere pensata in modo disumanamente cinico, in una logica di puro darwinismo sociale. Eppure, la stragrande maggioranza degli scienziati va nella direzione opposta: nelle ultime settimane abbiamo tutti visto straordinario spirito di abnegazione che ha unito medici, infermieri, ricercatori, studiosi che si stanno letteralmente consumando pur di salvare vite umane. Anche qui dunque ritorna il dilemma: ad affermarsi sarà un’idea di scienza che non si fa scrupolo di passare sopra la morte di migliaia di persone pur di arrivare al proprio obiettivo o una concezione nella quale lo sviluppo della conoscenza viene effettivamente messo al servizio della vita di tutti, a cominciare dai più fragili? Infine le grandi religioni, anch’esse chiamate in causa. Perché è chiaro che senza capacità di misurarsi con quanto sta accadendo le Chiese non avranno futuro. Anche qui ritorna il dilemma vita e morte. Da un lato, l’attrazione fatale verso le spiegazioni facili: il virus come castigo di Dio che si abbatte sulle nostre società peccatrici; le attese miracolistiche dove riappare l’idea di un Dio potente e vendicatore. Il ‘dio tappabuchi’ di cui ha parlato Dietrich Bonhoeffer. Dall’altro l’immagine di papa Francesco che, zoppicando, attraversa le vie di una Roma deserta per andare a pregare sotto il Crocifisso e l’icona della Madonna: un simbolo universale del ruolo profetico delle grandi religioni oggi. Spogliate dal potere politico, prive di conoscenza scientifica, esse sono chiamate a essere comunità in cerca di quel Dio che – in questi momenti difficili – si fatica a trovare. Nel momento in cui le nostre certezze si rivelano fasulle, le religioni hanno il compito di restituire spessore antropologico a quella condizione di precarietà che è la condizione costitutiva dell’essere umano. Nella consapevolezza che ‘preghiera’ – dal latino prece – ha la stessa etimologia di ‘precario’. E per questa via riscoprire che, più che la sicurezza – per definizione sempre vulnerabile – l’uomo è sempre alla ricerca della salvezza: come realizzazione della propria vocazione che, senza escluderla, non permette che sia la morte ad avere l’ultima parola sulla vita. Ecco dunque il dilemma: le religioni saranno capaci di sostenere l’esperienza dell’affidamento a un senso che pure, in questi giorni drammatici, non riusciamo a cogliere? Saranno cioè capaci di morire per rinascere, così da permettere all’uomo contemporaneo di non sprofondare nell’angoscia da cui rischia di essere travolto? Non sappiamo quanto questa crisi durerà. Né dove ci porterà. Sappiamo, però, che non saremo più gli stessi di prima. Vita e morte si stanno scontrando. In qualunque ambito della vita sociale ci troviamo a essere, occorre decidere da che parte stare.   AMEDEO CAPETTI:   “Al direttore – Sono un medico della prima divisione di Malattie infettive dell’Ospedale Luigi Sacco di Milano, fino a ieri esperto di terapia antiretrovirale con 650 pazienti sieropositivi per Hiv, catapultato poi come tutti in reparto Covid. Oggi ho un attimo di pausa e le scrivo per condividere i pensieri che mi affollavano la testa questa mattina mentre guidavo per venire in ospedale. Il primo pensiero era stridente rispetto al forzato ottimismo che vedo in giro in questi giorni, gli applausi, la nuova idolatria per la classe medica e infermieristica. Sono, a mio parere, tutti comprensibili tentativi di esorcizzare una umanissima paura, ma deboli quanto al contenuto. Ce la faremo, infatti, cosa significa? Che dobbiamo guardare solo alla fine dell’epidemia saltando la drammaticità del presente? E poi: chi ce la faremo? Io e lei che ci scriviamo? Il popolo italiano inteso astrattamente? Tutto questo mi convince poco e mi lascia francamente perplesso. Secondo pensiero. Noto, e trovo che sia un sintomo molto importante, la scomparsa quasi totale del lamento. I miei pazienti invece di lamentarsi mi mandano ogni giorni messaggi per chiedermi come sto e anche per partecipare dell’esperienza incredibile ed eccezionale che sto vivendo. E questa è la vera ragione per cui ho deciso di scriverle. In effetti quello che io sto vivendo, ma credo sia esperienza anche di molti altri, è l’avverarsi di un fenomeno che non di rado noi medici vediamo in chi è scampato a un pericolo potenzialmente mortale: l’esperienza di aprire gli occhi e accorgersi che nulla è più scontato. Ossia che tutto è dono, dal risveglio del mattino, dal saluto ai propri cari a ogni piccola piega di un quotidiano che per alcuni è tutto da riempire, per altri come me è diventato, se mai era pensabile, più vorticoso di prima. La grazia di questa nuova coscienza di sé trasforma radicalmente ciò che facciamo, genera stupore, amicizia, ci si guarda e ci si dice: oggi non ci possiamo abbracciare ma un sorriso ci dice ancora di più di quanto potrebbe dire un abbraccio. Questa consapevolezza ci fa diventare partecipi del dramma dei nostri pazienti e non è assolutamente un caso che i miei colleghi mi chiedano di pregare non solo per i loro cari ma anche per i loro pazienti, come non era mai successo prima. E anche questo è contagioso. Ieri mi ha chiamato una signora di Crema per sentire notizie della nonna, ricoverata al Sacco, che è molto grave. Mi ha riferito dell’altra nonna, morta di Covid, e della mamma, in rianimazione a Crema, poi mi ha detto: “Vede dottore, all’inizio io pregavo, ora non prego nemmeno più”. Io le ho risposto: “La capisco, signora, non si preoccupi, pregherò io per lei”. Al sentirlo ha avuto un sobbalzo e ha risposto: “No, dottore, se lo fa lei lo faccio anch’io. E anche per la mia mamma, preghiamo insieme”. Tutto questo è ricchezza, grazia, che se più gente ne prendesse coscienza potrebbe a mio parere avere anche un grande valore civile: riconoscere che siamo fragili e che tutto ci è donato, a partire dal respiro, oggi così poco scontato, appianerebbe tante divergenze e discussioni inutili. L’ultimo pensiero è andato al dopo: esperienza comune è che dopo un periodo di grande entusiasmo con il tempo tutto si spegne e i vecchi vizi riemergono, come già lamentava Dante Alighieri rispetto al secolo che lo aveva preceduto. Cosa ci può salvare da questa prevedibile iattura? Per quello che ne capisco io è necessario che questa gratitudine diventi un giudizio riflesso su quello che sta succedendo, che è bene espresso dalla domanda e dalla curiosità che tutti ci facciamo in questi giorni e che ci mette insieme: qual è, al fondo, l’origine di tutto ciò? Perché improvvisamente i nostri occhi si sono aperti e abbiamo iniziato a intravedere il fondo reale delle cose? Dove ci può portare questa esperienza? Dove ritrovare questo sguardo così umano gli uni verso gli altri che in questi giorni vediamo in tante situazioni? Chi ci può aiutare? Per me l’esperienza dell’irrompere dello stupore nella vita, per cui nulla è mai scontato e tutto è dato, è iniziata molti anni fa, e quando riaccade è come una ripartenza che rinnova in me la certezza dell’origine. Per altri sarà un cammino nuovo. Io non posso e non voglio dare risposte precostituite perché ognuno potrà capire, come me, solo facendone esperienza. Ma posso suggerire la domanda, perché nulla cada nella scontatezza e nella riduzione, estetica o cervellotica. Poi sono arrivato in ospedale”.   ALESSANDRO D’AVENIA:  Tempo di miracoli «I miracoli sono accaduti persino nei giorni più bui del XX secolo. Mia madre ha creato per me un giardino dell’Eden in mezzo all’inferno. Mi costruì attorno un robusto muro d’amore e mi trasmise una sicurezza così grande che non trovai nulla di insolito nella nostra esistenza. Mi fece il regalo più prezioso di tutti: un’infanzia felice. Il fatto che vi sia riuscita entro i confini di un campo di concentramento nazista deve essere considerato un autentico miracolo». Le parole di Raphaël Sommer, famoso musicista praghese, sono dedicate alla madre Alice, pianista sopraffina, morta all’età di 111 anni nel 2014. Avevo già scritto un altro pezzo per la rubrica ma, quando ieri sera, abitando a Milano, ho visto le scene di panico in conseguenza della chiusura di intere regioni e province a causa del virus, ho capito che dovevo raccontare il «miracolo» di cui parla Raphaël. Era il 1942, racconta la bellissima biografia (Un giardino dell’Eden in mezzo all’inferno), quando Alice Herz-Sommer vide partire sua madre, 72enne, per un campo di concentramento. Non seppe mai più nulla di lei. Alice, pianista di fama internazionale, allora 38enne, si mise a vagare come una disperata per le strade di Praga, che con tutta la Cecoslovacchia era dal 1939 sotto il controllo tedesco. Fu allora che, in preda alla paura e al dolore, sentì una voce interiore: «Esercitati nei 24 Studi, ti salveranno». Era una sfida assurda: i 24 Studi di Chopin sono pezzi per pianoforte tra i più rivoluzionari e difficili, tanto che nessuno si era mai azzardato ad eseguirli tutti in un unico concerto. Quei brani divennero il credo di Alice, che cominciò a esercitarsi, 8-10 ore al giorno, per eseguirli alla perfezione. Le diedero una corazza, una disciplina e una forza di volontà straordinarie. «La musica rafforzò il mio ottimismo e salvò la vita a me e al mio bambino. Era il nostro nutrimento. E, infondendo gioia nelle nostre anime, ci preservò dall’odio, cancellando la paura e rammentandoci le cose belle dell’esistenza anche negli angoli bui di questo mondo». Quella bellezza salvò lei stessa e molti altri: faceva ciò che sapeva e poteva meglio di come avesse mai fatto. Così vinse la paura, e diede a tanti un motivo per continuare a lottare e non cadere nella disperazione in mezzo a condizioni tremende di fame, malattie, sporcizia e violenza. Il segreto del miracolo era nella bellezza e nell’umiltà a cui l’aveva educata la musica: «Chi sa accogliere in sé la dignità e la grandezza di un’opera di Bach o Beethoven, non rinuncia forse inevitabilmente ai suoi obiettivi egoistici, di modo che le presunte cose importanti diventano relative?». I miracoli, quindi, esistono, anche in tempi bui: siamo noi. Quello di Alice, con i necessari e dovuti distinguo, adesso è chiesto a ciascuno: fare meglio di prima quello che sappiamo e possiamo fare, per servire gli altri e dare loro speranza, come quelle ragazze che a Torino si sono offerte di fare la spesa per gli ultrasettantenni del loro condominio. Non dobbiamo solo obbedire (e sarà già dura per un popolo che con le regole ha un rapporto difficile) alle voci «esteriori» che ci dicono cosa fare per non aumentare il contagio, ma ascoltare la più sottile voce interiore che ci ricorda chi siamo e che cosa possiamo fare per gli altri, ciascuno nel suo ambito. Dedicarci a chi abbiamo in casa e, come possiamo, agli altri, ci farà riscoprire i loro bisogni e le nostre priorità. ALESSANDRO D’AVENIA:  Fragile: maneggiare con cura «Si mise in testa, lo sventurato, che era fatto tutto di vetro e, quando qualcuno gli si avvicinava levava urla tremende, supplicando con parole e ragionamenti assennati che nessuno gli si accostasse perché l’avrebbe rotto; perché lui era tutto di vetro, da capo a piedi». Così Miguel de Cervantes, in una delle Novelle esemplari, descrive Tomás, un giovane avvocato soprannominato «dottor Vetro» che, come il Don Chisciotte che l’autore scriveva negli stessi anni, è un folle che dice la verità a chi si crede normale. Tomás è stato avvelenato da una donna con un filtro magico che non ha però ottenuto l’effetto desiderato, obbligarlo ad amarla, ma ha sortito tutt’altro esito: sopravvissuto per miracolo, il giovane è infatti convinto di essere diventato di cristallo. I suoi amici cercano invano di aiutarlo. Lo abbracciano, esortandolo a far caso e a osservare come non si rompesse. In queste giornate drammatiche ci sentiamo di vetro anche noi. Fragili e impauriti da ogni contatto, ci siamo dovuti chiudere in casa. L’effetto è tanto inatteso quanto dirompente: le relazioni si mostrano nella loro nuda verità. Gli spazi stretti e il tempo largo provocano inevitabili attriti e scontri, eppure solo quando diventiamo trasparenti riscopriamo la qualità delle nostre relazioni. É lo stesso Tomás a offrirci la soluzione, infatti grazie alla sua follia, il giovane ha acquisito il potere della trasparenza: «Chiedeva che gli parlassero a distanza e gli domandassero pure quel che volevano perché avrebbe risposto a tutto con molto più senno, giacché era un uomo di vetro e non di carne; infatti il vetro, in quanto materia sottile e delicata, permetteva all’anima di operare con maggior prontezza ed efficacia rispetto al corpo, materia pesante e terrestre». Nel racconto di Cervantes, la fama di saggezza e schiettezza di Tomás si diffonde, e tantissimi si recano da lui per chiedergli consiglio o semplicemente per ascoltare la sua lucida pazzia: quel giovane dice la verità senza mezzi termini, smascherando menzogne e finzioni degli interlocutori. La stessa cosa può accadere a noi in questi giorni di relazioni «inevitabili». Da quanto tempo non affrontiamo ferite, silenzi, bugie, rancori, segreti, che ci hanno allontanato da chi abita con noi sotto lo stesso tetto? Adesso, proprio perché non ci possiamo più nascondere, come il dottor Vetro abbiamo la possibilità di rendere trasparente ciò che era stato oscurato dalle attività esterne quotidiane o opacizzato da ripetitive routine casalinghe. E la verità ritrovata potrà essere arma o cura. Sta a noi scegliere cosa fare della nostra condizione di uomini e donne di prezioso vetro di Murano: sottoposti al fuoco incandescente dell’emergenza, siamo costretti a tornare malleabili. Sapremo rimodellare le relazioni grazie a questa inattesa tenerezza o, rimanendo rigidi, ci frantumeremo a vicenda? Il tempo da passare insieme sembrerà lunghissimo, ma è un nulla in confronto a quello che può significare per la vita futura. Conosco famiglie che stanno riscoprendo la bellezza di stare insieme con passatempi dimenticati come i giochi da tavola o semplicemente consumando i pasti in compagnia; un marito che deve proteggere la moglie immunodepressa con una delicatezza nuova; fratelli incollati a serie TV che in altre occasioni non avrebbero mai guardato insieme; coppie che riscoprono interessi comuni dimenticati strada facendo; padri che leggono storie ai figli; madri che sprigionano la loro creatività per impegnare bambini chiusi in casa per tante ore; persone dello stesso condominio che si aiutano per la spesa o altre necessità… Possiamo imparare di nuovo a «maneggiare con cura» la fragilità degli altri: il virus è letale anche per l’individualismo che quotidianamente ci avvelena. Alla fine del racconto Tomás guarisce, ma tutti continuano a preferire il bizzarro dottor Vetro che diceva la verità senza mezzi termini: così è costretto a migrare dove nessuno lo conosce per iniziare una nuova vita. E noi sapremo fare tesoro di questi giorni di verità, anche se difficili, faticosi, a tratti impossibili, come un’occasione irripetibile di verità nelle relazioni fondamentali? Siamo stati costretti a diventare di vetro, cioè più autentici di quanto crediamo di essere normalmente dietro corazze, abitudini e ruoli che ci fanno sentire sicuri, ma spesso ci rendono oscuri proprio con le persone che hanno diritto alla nostra tenera e fragile trasparenza, per poterla amare. ALESSANDRO D’AVENIA:  Amuchina Continui a sfregarti le mani per eliminare ogni atomo di impurità. Cerchi una purezza impossibile sulla Terra, perché la Terra è terra: me lo ha ricordato mercoledì scorso il rito delle ceneri, polvere sono e polvere ritornerò. Allora ti guardi le mani che dai sempre per scontate, tranne quando ti rivelano a che cosa ti aggrappi per non affondare: ma io sono davvero solo polvere? Per gli antichi di puro c’era solo il vino non tagliato con acqua e il divino non tagliato col tempo, e quindi immortale: a noi mortali la vita «in purezza» non è data. Il tempo ci rende «sanamente impuri», in lotta continua contro la morte, e per questo fecondi e creativi nel costruire la vita. Un virus ci ha ricordato questa impurità, sgretolando la febbrile routine e mostrandoci le fondamenta su cui viviamo, perché è di fronte alla paura della morte che si vede chi siamo veramente. Le fondamenta di una società che si dice «progredita» appaiono incerte e siamo costretti a chiederci su cosa abbiamo costruito, in cosa abbiamo avuto fede e, magari, come ricostruire. Nel Decameron del Boccaccio, emergono le fondamenta che lo scintillante autunno del Medioevo consegnava all’Occidente come antidoto alla morte. Fortuna, Amore e Ingegno sono infatti gli argomenti attorno a cui ruotano i racconti (e la vita), perché Amore e Ingegno sono le due forze umane capaci di contrastare la Fortuna, il caos dell’intera vicenda umana. E noi? Assaltiamo supermercati e farmacie, ci isoliamo, consultiamo di continuo aggiornamenti e informazioni. Non si sa a chi credere e, in assenza di verità, la paura, senza un preciso oggetto, diventa angoscia, che rende l’agire assurdo. Alla Fortuna non opponiamo né Amore né Ingegno: non ci siamo allenati in tempi di pace. Ci difendiamo dalla morte accumulando cose, medicine, informazioni: abbiamo imparato queste risposte. E così viviamo nella paura senza interrogarla, come invece è chiamata a fare una manciata di polvere animata dal soffio di Dio. Ci crediamo così progrediti che, quando sbeffeggiamo chi è retrogrado, usiamo l’aggettivo «medioevale». Ma forse se ci riscoprissimo eredi di un umanesimo che ha lasciato un «mondo» di bellezza, proprio perché sapeva che – divino e umano – sono entrambi necessari per fare il «mondo», apriremmo vie nuove contro la morte. L’Amuchina rende le mani pure, sterili, ma sterile è anche chi non crea e ricrea la vita: non può e non deve bastare per quello che le nostre mani possono ricevere, dare e fare.   LA LUCE DIETRO ALLE OMBRE…. Ho visto degli arcobaleni disegnati dai bambini con le loro mamme esposti fuori da tante finestre…… Ho sentito mio figlio pregare per chi in questi giorni non puo’accompagnare nella morte un proprio caro all’ospedale… Ho visto una scritta sulla vetrina di un negozio “Coraggio, andrà tutto bene!” Ho sentito studenti che volevano partecipare anche alle videolezioni di classi non loro per la voglia di imparare, di parlarsi, di vedersi, di fare due chiacchiere… Ho visto un foglio sui campanelli di un condominio “Se qualcuno ha bisogno per la spesa, telefoni al numero…” Sento mio figlio telefonare tutti i giorni ai nonni per sapere come stanno… Ho visto educatori che per tenere vivo il rapporto con i loro ragazzi hanno “architettato” videochiamate di gruppo, momenti di preghiera in simultanea… Ho sentito un’ amica chiedermidi recitare insieme a lei alle 19 il rosario per il suo papà stando ognuno a casa sua… Ho visto insegnanti che per il desiderio di prendersi cura dei propri alunni son diventati improvvisamente esperti in didattica a distanza… TO BE CONTINUED…   FRANCESCA MORELLI:   “Credo che il cosmo abbia il suo modo di riequilibrare le cose e le sue leggi, quando queste vengono stravolte. Il momento che stiamo vivendo, pieno di anomalie e paradossi, fa pensare… In una fase in cui il cambiamento climatico causato dai disastri ambientali è arrivato a livelli preoccupanti, la Cina in primis e tanti paesi a seguire, sono costretti al blocco; l’economia collassa, ma l’inquinamento scende in maniera considerevole. L’aria migliora; si usa la mascherina, ma si respira… In un momento storico in cui certe ideologie e politiche discriminatorie, con forti richiami ad un passato meschino, si stanno riattivando in tutto il mondo, arriva un virus che ci fa sperimentare che, in un attimo, possiamo diventare i discriminati, i segregati, quelli bloccati alla frontiera, quelli che portano le malattie. Anche se non ne abbiamo colpa. Anche se siamo bianchi, occidentali e viaggiamo in business class. In una società fondata sulla produttività e sul consumo, in cui tutti corriamo 14 ore al giorno dietro a non si sa bene cosa, senza sabati nè domeniche, senza più rossi del calendario, da un momento all’altro, arriva lo stop. Fermi, a casa, giorni e giorni. A fare i conti con  un tempo di cui abbiamo perso il valore, se non è misurabile in compenso, in denaro. Sappiamo ancora cosa farcene? In una fase in cui la crescita dei propri figli è, per forza di cose, delegata spesso a figure ed istituzioni altre, il virus chiude le scuole e costringe a trovare soluzioni alternative, a rimettere insieme mamme e papà con i propri bimbi. Ci costringe a rifare famiglia. In una dimensione in cui le relazioni, la comunicazione, la socialità sono giocate prevalentemente nel “non-spazio” del virtuale, del social network, dandoci l’illusione della vicinanza, il virus ci toglie quella vera di vicinanza, quella reale: che nessuno si tocchi, niente baci, niente abbracci, a distanza, nel freddo del non-contatto. Quanto abbiamo dato per scontato questi gesti ed il loro significato? In una fase sociale in cui pensare al proprio orto è diventata la regola, il virus ci manda un messaggio chiaro: l’unico modo per uscirne è la reciprocità, il senso di appartenenza, la comunita, il sentire di essere parte di qualcosa di più grande di cui prendersi cura e che si può prendere cura di noi. La responsabilità condivisa, il sentire che dalle tue azioni dipendono le sorti non solo tue, ma di tutti quelli che ti circondano. E che tu dipendi da loro. Allora, se smettiamo di fare la caccia alle streghe, di domandarci di chi è la colpa o perché è accaduto tutto questo, ma ci domandiamo cosa possiamo imparare da questo, credo che abbiamo tutti molto su cui riflettere ed impegnarci. Perchè col cosmo e le sue leggi, evidentemente, siamo in debito spinto. Ce lo sta spiegando il virus, a caro prezzo.” [...] Leggi di più...

Archivio Articoli

  • Appuntamenti (62)
  • Campeggi (64)
  • CFdC (3)
  • Compagnia Teresianum (1)
  • Coronavirus (18)
  • Famiglie (92)
  • GdP (57)
  • Giornalino (2)
  • Incontri (16)
  • Iniziative (43)
  • Letture del Giorno (97)
  • News (200)
  • Senza categoria (1)

Link utili

Scuola dell'Infanzia San Giuseppe
Scuola dell'Infanzia V. Guidetti
Centro d'Ascolto Caritas
Diocesi Reggio Emilia
Scout Scandiano
Boiardo Maer
Omelie di papa Francesco
Il vangelo del giorno

© 2025 Pieve di Scandiano